Mangiare carne di cane, perché no? È la provocazione lanciata dallo Chef inglese Hugh Fearnley Whittingstall, a quanto pare noto per le sue sparate anticonformiste, che ha fatto andare su tutte le furie gli animalisti d'oltre manica. Whittingstall ha attaccato frontalmente uno dei più consolidati tabù della nostra civiltà, che ha riservato un trattamento di favore solo a pochi animali privilegiati, escludendoli dal consumo alimentare.
Secondo lo chef "la carne di un cucciolo di cane non è peggiore della bistecca di maiale". Detto così suona come un'aberrazione perfino a chi animalista non è, ma ciò che l'incauto cuoco dice paragonando maiali e cani (che lo faccia per suscitare interesse e incrementare le vendite del suo nuovo libro è un'altra storia) può trovare un senso nel fatto, abbastanza inconfutabile, che “sono le regole sociali e le convenzioni a rendere i primi preda lecita del macellaio ed i secondi amati animali da compagnia”. “La gente ha bisogno di essere scioccata per essere sensibilizzata sui temi legati all'alimentazione" dice Whittingstall. Ed è vero, abituati come siamo a ragionare per luoghi comuni. L'esistenza delle “caste animali” (se sei nato animale da compagnia non puoi scendere di livello e viceversa) del resto è comunemente accettata da tutti noi e sancita da leggi che contemplano reati da codice penale a seconda del livello di protezione. Differenze che hanno radici antichissime, occorre precisarlo. Anche se talvolta finiamo per dimenticarcene, il nostro rapporto con gli animali è subordinato a consuetudini consolidate nel tempo e dettate da esigenze reali: in primis quelle della sopravvivenza e della proliferazione della nostra specie.
Come sappiamo, i cani non sarebbero mai esistiti se l'uomo non avesse trovato una convenienza nell'addomesticare il lupo tanti e tanti anni fa per aumentare le proprie chanches a caccia e, in seguito, per badare al bestiame senza temere i predatori. Ne è conseguita un'astuta manipolazione genetica, ottenuta con pazienti e giudiziosi incroci, che ha dato vita a nuove razze adattate alle diverse esigenze, alcune delle quali oggi perfino adattate alla cultura pet del cane da borsetta. Lo stesso principio che ha modellato forme e capacità nei cani, è stato applicato sin dal paleolitico ad altri animali e vegetali selezionati per la nostra alimentazione. Così il maiale è diventato sempre più grosso (e meno grasso), il pollo sempre più tenero, il mais e il grano sempre più proliferi.
Anche l'amicizia con il gatto, l'altro privilegiato per eccellenza, del resto è stata sancita da una vera convenienza, in questo caso reciproca: al tempo degli egizi, e anche prima in Asia, il micio trovava pasti sicuri nei granai e nelle altre riserve di cibo infestate dai topi. Gli uomini ne hanno ricavato una disinfestazione naturale continua, riducendo il rischio di infezioni ed epidemie in grado di decimare la popolazione (nell'Inghilterra vittoriana, si selezionavano pure razze di cagnetti adatti anch'essi a dar la caccia ai topi, categoria di “mammiferi” invece caratterizzata da specie perennemente in disgrazia). Ovviamente ciò non ha impedito, anche durante il secolo scorso, specialmente sotto la spinta della fame e in situazioni di necessità, di mangiarli i gatti, anche se poi lo si è rimosso, tanto che raccontarlo in tv oggi comporta la sicura epurazione (vedi caso Bigazzi, cacciato dalla Rai).
Proprio il problema sanitario, insieme a quello dell'approvvigionamento alimentare e della diretta convenienza (non è mai convenuto mangiare i cani, utilissimi per altri scopi) è in cima alle ragioni per cui mangiamo o non mangiamo certi animali, anche se ci siamo assuefatti all'idea che lo abbia ordinato Maometto, Shiva, Dio, Buddha o il nostro nuovo credo animalista. Il dogma religioso, per esempio, è stato (ed è ancora) il veicolo migliore per diffondere con successo consuetudini alimentari – e non – salubri e utili alla vita in società: la carne di maiale è difficile da conservare e troppo grassa per essere consumata in clima torrido: ecco che diventa impura e peccaminosa nei paesi arabi, proprio come il consumo dell'alcool, che alza pericolosamente la temperatura corporea. In India viceversa è la mucca l'animale escluso dai pasti: la carne non basterebbe a sfamare una così folta popolazione (come certifica il grande antropologo Claude Lévi Strauss; leggi: Tristi Tropici, Il Saggiatore) e anche qui si pongono seri problemi di conservazione degli alimenti, molto più facile in ambienti freddi o dal clima secco. Senza omettere che la tendenza ad un regime prettamente vegetariano è inevitabile per le popolazioni troppo numerose (specie se povere), come dimostra la stessa piramide alimentare, fondamento scientifico basato sulle risorse finite del nostro piccolo grande pianeta. Alle diverse esigenze pratiche corrispondono modelli di costume ben precisi. Non è un caso che in Cina è solo con l'arrivo del progresso capitalista, e quindi di un sistema di valori completamente diverso, e sotto la spinta di movimenti animalisti occidentali, che ci si pone il problema etico della carne di cane.
Il nostro tenore di vita, tipico di tutti i paesi fortemente industrializzati, ci consente di dimenticarci delle necessità che regolavano fino al secolo scorso i nostri rapporti con la natura. Oggi possiamo permetterci di curare le carie del gatto e e gioire della compagnia del cane, indipendentemente dalla sua utilità, possiamo chiamare gli animali nostri amici e sentirci responsabili della loro esistenza, viziandoli come figli. Possiamo fare tutto, a patto che siamo consapevoli di come ci siamo arrivati. Consapevoli per esempio del fatto che anche voler bene ad un animale è una forma di opportunismo. Che si chiami esigenza affettiva, da cui deriva la qualifica “animale da compagnia”, tipica dei giorni nostri o esigenza alimentare con la conseguente qualifica “animale da carne”, o lavorativa “animali da soma”, ecc., l'equazione che ci lega agli animali, domestici, selvatici o allevati in batteria, è sempre la stessa: loro ci servono e per questo noi li rispettiamo e talvolta li adoriamo.
Corollario casalingo. Ai cacciatori, servono i cani da caccia, e anche per questo li adorano. Agli anticaccia questo non piace, ma nello stesso tempo nelle loro deboli menti si agita il dubbio inquietante mosso dal paradosso di Singer: che fine farebbero quei diversi milioni di cani da caccia (tanto per rimanere in Italia) un giorno che la loro visionaria e illusoria speranza (di chiudere definitivamente la caccia) diventasse realtà?
Cinzia Funcis
(24/10/2011)
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Re:Sondaggio anticaccia su L'Arena.it
Questo lo dici tu, CACATORE siciliano!!!
da siete_malati_di:mente 23/10/2011 18.32