La mia prima beccaccia da cacciatore, la ebbi che non avevo ancora il porto d’armi. Ci avevano regalato un cucciolone di pointer, Fox, tutto bianco con qualche macchia arancio ma non decisa. Era un bel cucciolone con un ottimo portamento e, a parte qualche coniglio, non aveva incontrato altro selvatico durante la stagione trascorsa dall’apertura fino al mese di novembre. Un mese che era stato molto triste per noi perché avevamo perso a causa di un’esca avvelenata, la kurzhaar Lola de la Combe all’età di 7 anni.
Comunque animati da quella eterna speranza che contraddistingue i cacciatori perché in fondo “la Caccia è sempre domani”, portavamo a spasso nella cava questo giovane ausiliare totalmente inesperto. Però girava molto bene, ispezionava con dovizia il fondo della cava, cespugli, alberi e i contrafforti laterali, allargandosi bene senza mai eccedere troppo. Eravamo sulla strada del ritorno quando il cane, che ci seguiva, si attardò tra un fitto di cespugli, mentre il campanellino rallentava mandando rintocchi lievi e molto discontinui. Mio padre si fermò e mi invitò ad ascoltare bene: un frullo, un battito d’ali ci strappò un battito di cuore, mentre Fox tutto agitato ci veniva incontro con fiato rauco, non ci guardò neanche, ci superò e andò a mettersi in ferma una ventina di metri più in basso.
Mio padre mi porse la doppietta, non compresi subito, ma si fece di lato e mi fece capire che adesso toccava a me: avevo 14 anni, ma il fisico di una persona adulta, però in quell’istante il fucile mi pesava in mano come un cannone. Ma non mi tirai indietro e andai dietro al pointer che vibrava come in preda alla febbre, la sua bocca si apriva e chiudeva lentamente, i muscoli tesi, la coda dritta come la bacchetta di un maestro d’orchestra e che sinfonia udìi poco dopo; il rumore di quelle ali e quel guizzo e il balzo del cane in avanti sembrarono trascinarmi con loro anche se ero fermo, un flusso come liquido sentivo riversarsi dalla parte posteriore del mio corpo, dalla nuca e dalle spalle, dando impulso a tutto il corpo che si unì all’arma, l’occhio alla bindella (al mirino no perché nella doppietta era rotto) al selvatico; percepìi il movimento forse rima che avvenisse e la beccaccia mi frullò davanti curvando leggermente sulla mia destra, Fox già correva in direzione, tornando con il prezioso corpo esanime a fior di labbra. La prima beccaccia della stagione, la prima del pointer, e la prima della mia vita.
Gli anni trascorsi con il Pointer furono eccezionali per la presenza di regine nella nostra zona e ogni anno sembrava che il numero lievitasse. La cosa che mi colpiva era il fatto che praticamente cacciavamo da soli, perché la moda della beccaccia e dei beccacciari non era ancora scoppiata. Le cave erano tutte nostre e anche quando incontravamo qualche collega cacciatore non ce ne curavamo più di tanto perché tanto con Fox non c’erano problemi. Un giorno, una domenica di fine novembre, avevamo deciso di affrontare l’affascinate quanto impervia cava di “Martorina” (penso che il nome l’abbia preso dalla presenza notevole di Martore).
Al centro della cava, tra i pesanti volti di pietra che guizzano fuori dalle pareti di roccia, incorniciate dalla rigogliosa natura di questa area, incontriamo una squadra di cacciatori con dei setter; avevano già preso due beccacce e ci guardavano con aria di sufficienza. Come sempre in quel periodo, eravamo solo io e mio padre e immagino che l’impressione che potevamo dare era di sprovveduti alle prime armi. Salutammo cortesemente e proseguimmo per la nostra strada andando nella direzione da cui erano venuti loro. Ci allargammo solo leggermente sulla destra salendo, il campano di Fox risuonava allegro e veloce e lo osservavamo sfrecciare tra i fusti dei lecci e campi di felci, con il suo bel fisico muscoloso e asciutto. Dopo un po’ ci passa davanti a qualche decina di metri, aggira un cespuglio di rovi e non sentiamo più il campano. Schiocco le dita ma nulla, il cane era in ferma così proseguo cercando di fare il minor rumore possibile. Lo trovo piantato sulle zampe e testa alta, facendomi capire che la beccaccia doveva essere lontana. Inizia una lunghissima guidata che mi tormenta il corpo sempre piegato sotto i rami, pronto a inginocchiarmi e tirare, ma alla fine, in una piccola radura di lecci alti, di pungitopo e di felci il cui verde contrasta aspramente con il colore delle foglie morte, finalmente la ferma definitiva.
Mi rialzo, raccolgo una zolletta di terra scura come il carbone, ma umida e grassa; la tiro alcuni metri davanti alla ferma del cane e pa-pa-pa-pa vola placida una beccaccia, una di quelle che arrivano per prime con la testa enorme e il becco grosso, di quelle che ai giorni nostri non sono più riuscito ad incontrare: dicono che sono i flussi migratori, dicono che forse è il riscaldamento, sarà, ma a me mancano, perché dettavano il ritmo della caccia invernale. Fox al suo solito si avvicina alla beccaccia che giace nel suo letto di foglie, mirando quell’angolo di cielo ormai troppo lontano e inutile e impossibile da raggiungere, le strappa alcune piume dal petto e scappa via a cercarne un’altra ancora. E ne trovava sempre, di continuo, finché un giorno di aprile un male velocissimo lo portò via tra le sue beccacce. Rimango spaesato, non so se il secondo cane, che nel frattempo avevamo acquistato, un Bracco Italiano di nome Zeiro allevamento della Croccia, sia all’altezza di sostituirlo, ma non posso rinunciare alle beccacce.
Non vedo l’ora che arrivi il giorno dei Morti, perché quello è sempre il primo giorno della stagione che mi regala la prima beccaccia che come un bimbo festante mi riempie sempre di gioia. Ho paura di entrare nella cava, di varcare quei luoghi sacri e cari a Fox, temo di non poter più essere in sintonia con tutto quel mondo senza il pointer. Perciò decido di dedicarmi ancora qualche giorno in più alle quaglie. In questa caccia il bracco italiano eccelle senza dubbio rispetto al pointer e mi regala grandi soddisfazioni, così non penso alle regine. In questo giorno di novembre, pur sempre caldo e umido nella Sicilia sud orientale, tutto sembra apparire diverso: è nuvoloso, ogni tanto gocciola qualche lacrima di pioggia, banchi fermi di aria umida e calda si alternano ad altri più freschi e questo fenomeno crea una nebbiolina bassa ed evanescente. Tra le stoppie e il vigneto, l’erba autunnale è alta ma ricca di nutrimento per le quaglie e il bracco si prodiga in ferme continue e di assoluta bellezza. Entrati nel vigneto, andiamo in fondo fin dove costeggia un piccolo e folto canneto. Zeiro, che si era allargato alla mia sinistra perlustrando la parte alta, di colpo scende tra i filari con la testa protesa in avanti. Le nari dilatate e gli occhi mobili, che cercano me e poi corrono subito davanti, mi fanno capire che qualcosa ha percepito lì proprio nell’angolo del vigneto: “strano posto” penso “per una quaglia che ha molte vie precluse al volo”. Scende ancora il bracco e quindici metri davanti a me si blocca statico. La sua ferma è in direzione del canneto e quando si incolonna una bellissima beccaccia, proprio mentre inizia a piovigginare e i miei occhiali si appannano e si riempiono di goccioline, rimango spiazzato e sbalordito sparando una maldestra fucilata ma molto dopo che l’arciera è scomparsa. Se avevo bisogno di un segnale quello era il più chiaro e gradito.
Non so dire se è vero il concetto che il cane fa il cacciatore, ma nel mio caso, con il Bracco Italiano Zeiro, fu proprio così. Si dimostrò una vera guida per me, consentendomi di varcare con facilità l’accesso al mondo della natura e direttamente per l’entrata principale. Divenne negli anni una condizione talmente semplice che mi risultava scontata, non comprendendo da giovane cacciatore, di quanto invece fosse difficile raggiungere quello stato.
Saro Calvo
Racconto tratto dal libro