Anche il recente e probabilmente non ultimo monito del presidente della CEI ci ricorda che il nostro paese è attraversato da fenomeni da basso impero. Nani e ballerine impazzano nella movida rutilante delle infinite rappresentazioni della casta, manutengoli e lestofanti si muovono indisturbati alla luce del giorno, anzi - novelli binladen - gioiscono davanti alle telecamere, illuminati dai riflettori di improvvisati studi televisivi. L’opinione pubblica internazionale s’interroga sempre più sbigottita e attonita di fronte alle grottesche messe in scena di una commedia gaglioffa che si prolunga irresponsabilmente in una serie infinita di colpi di teatro. Sempre più difficile, per un comune mortale, capire le ragioni recondite che tengono un popolo, di antica civiltà, appeso per gli zibidei, in attesa che qualcuno si decida a calare il sipario.
In tutto questo inconsulto bailamme, impazza la più totale incompetenza, anche ai più alti livelli, fra ex direttori di giornali latitanti che usano il video per lanciare messaggi criptati (ma qualcuno sembra che il decoder ce l’abbia) e direttori in carica che usano il mezzo, a volte pubblico, per dare forza al proprio, meschino, particulare. Non c’è niente di nuovo sotto il sole, direte voi. Da che mondo è mondo, certe cose sono sempre successe, la storia ce lo insegna. E’ vero, per carità. Ma sfido chiunque a sostenere che venti, trenta, quarant’anni fa al massimo, qualcuno avrebbe pensato di assistere alla concessione del laticlavio a una cavalla (vedi Cicciolina) o allo scatenarsi di un’operazione di polizia (dicono privata) in grande stile, alla ricerca di una cagnetta forse stufa di mangiare pesce surgelato.
E mentre si confonde il bene pubblico con l’interesse privato, si danno i voti ai magistrati non in relazione ai reati che perseguono ma alla consorteria a cui si pensa che appartengano, mentre si pontifica sui neutrini o sulla dinamica delle popolazioni (siamo tutti Zichichi), facendo rivoltare nella tomba quel povero Galileo, l’apoteosi dell’ora del dilettante la si raggiunge quando si parla di conservazione dell’ambiente, di gestione del territorio, e – sì, diciamolo finalmente - quando si affronta il tema “più grave” del paese: la caccia.
Quest’anno, per l’appunto, per questi profeti di sventura, è andata male. Erano giù tutti pronti per scatenarsi contro i cacciatori assassini, ma l’apertura è praticamente passata sotto silenzio. Incidenti – sempre troppi, anche se pochi – largamente al di sotto della soglia fisiologica. Polemiche quasi zero, se non quelle innestate sui calendari, sulle deroghe, a volte scaturite al nostro interno, ma del tutto funzionali a una dialettica difficilmente contenibile su argomenti che suscitano grandi passioni. Per conquistare qualche briciola di cronaca, la componente più sciocca del variegato mondo animalista, ormai con le pezze al culo, in mancanza di grassi contributi pubblici, si è dovuta inventare una class action nei confronti delle regioni, accampando diritti di caccia mai onorati, con argomentazioni giuridiche, al cospetto delle quali gli uffici legali degli enti preposti, quando le hanno lette, si sono sbellicati dalle risa e ancora si stanno sbellicando.
In un mondo dell’apparenza, dove tutto esiste solo se lo dice la televisione, dove i più sensibili anche fra le nostre fila, cominciano ad essere stufi di venire additati come degli irresponsabili assassini di orsi-star, si profila invece un piccolo rinascimento che passa – oltre che da noi comuni mortali, quotidianamente impegnati in campagna a farsi il mazzo con i volontari della protezione civile, a tu per tu con la gente che capisce, perché sa, che senza di noi non ci sarebbe né fauna selvatica né territorio adatto per accoglierla – attraverso il coraggio di chi, molto in vista, non esita a fare professione di fede (eh si, sfido chiunque, in questa situazione, a dimostrare che la passione per la caccia non è vera e propria fede, un modo di essere, una scelta di vita). E non mi riferisco a quei centotrenta parlamentari dell’intergruppo che fuori dal coro delle comari da transatlantico, c’hanno messo la faccia nel palesare con gioia la loro passione. Queste facce, vecchie e nuove, avranno fatto poco per noi, avrebbero potuto fare di più, chi lo sa, è possibile; difficile comunque fare la riprova. Sta di fatto, che se non si fossero schierati con la caccia, aldilà della loro parte politica, aldilà di come ognuno di loro la intenda, la caccia, quelle aule sarebbero state anche più grigie, per noi.
No, non mi riferisco a loro, mi riferisco a quei personaggi sempre in vista nel circo mediatico, degli affari, della imprenditoria, della finanza, dello sport, che spontaneamente, senza alcun tornaconto, salvo gli improperi che si possono beccare dalle agguerrite tifoserie degli anticaccia, vanno fieri di questa nostra passione. E insieme al codino nazionale, diolosalvi, a cui non renderemo mai grazie abbastanza, in queste ultime settimane abbiamo avuto il piacere e l’onore di annoverare stelle di fama planetaria, come mr. Facebook Zuckerberg, che si ciberà solo di carne da lui stesso cacciata, e guardate che lui è uno che conta, se è vero come è vero che farà la differenza alle prossime presidenziali americane. E insieme a lui, il piededoro Ibrahimovic, che tira ai cinghiali e alle alci con la stessa precisione con cui tira in porta, e non lo manda a dire, alla faccia di quei simpaticoni che nella rete (quella del web) lo insultano senza ritegno.
Ma tutti noi dovremo essere grati anche a un nostro grande compaesano, quel Ferruccio Ferragamo, noto in tutto il mondo dell’alta moda, da Sidney, a Tokyo, a Dubay, a New York, che in questi giorni fa bella mostra di sé con una lunghissima intervista a Panorama, dove si dilunga, ma davvero si dilunga, sul suo amore per la caccia, che assapora col figlio e i fratelli come una cosa strettamente di famiglia, per i piaceri delle cose “sagge e meravigliose”, i suoi cani, la sua fattoria, il suo vino, il suo olio, la vita sana e genuina della campagna.
Ecco, se questi novelli principi del moderno rinascimento planetario, capitani d’industria, genii appagati, giovani talentuosi, avanguardie del bello, escono senza problemi, anzi a volte contro il proprio interesse, a manifestare senza remore il loro orgoglio di cacciatore, ecco, allora io penso che forse qualcosa cambierà. Che anche per noi, per la nostra passione, per la nostra pervicace dedizione a una causa, quella dell’uomo più vero e genuino, un filo di speranza c’è! Crediamoci!
Vito Rubini