Come sappiamo, il Governo, sollecitato da più parti, ha dato il via a tutta una serie di proposte normative per regolamentare il consumo e la vendita della selvaggina cacciata. Sulla spinta associazionistica (fondazione Una in primis) e istituzionale (Regioni, Province, Atc, Università) si sta affrontando il tema della filiera delle carni selvatiche, già realtà in evoluzione in diverse regioni (Emilia Romagna, Lombardia, ecc.) in modo organico e pragmatico. Dopo il convegno all'Università di Lodi del novembre scorso, qualcosa è emerso in superficie. Anzitutto la messa a punto da parte del Ministero della Salute di apposite Linee guida che intervengano in materia di igiene delle carni di selvaggina selvatica (per il controllo ufficiale ai sensi dei regolamenti CE) da sottoporre infine al voto della Conferenza Stato Regioni.
Di base c'è la constatazione del fatto che il settore delle carni di selvaggina dimostra un costante incremento della domanda (la carne “selvatica” piace sempre di più) e dell’offerta (tanta selvaggina a disposizione). Ristoranti, trattorie, e perfino supermercati, stanno dedicando sempre più spazio a questo elemento, ricco di proprietà benefiche organolettiche e qualitativamente superiore alle altre produzioni a base di carne. C'è poi la questione della abnorme disponibilità della materia prima, ovvero il problema-risorsa degli ungulati in sovrannumero nel nostro Paese, soprattutto sull'Appennino, che fa tanto dannare gli amministratori pubblici. Se da una parte si mira, senza successo per ora, a ripristinare il contributo volontario dei cacciatori nei piani di contenimento (vedi emendamenti alla Legge di Bilancio, scomparsi con il voto di fiducia del Governo), dall'altra si cerca di tradurre il lavoro di migliaia di cacciatori in entrate monetarie, non solo per i cacciatori, ovviamente, ma ai fini dell'avvio di una produzione parallela che porti il marchio di selvaggina italiana. Che accada, prima o poi, al di là di tutte le considerazioni, è tanto ovvio quanto inevitabile, visto che il mercato della selvaggina non l'abbiamo certo inventato noi, e che di quella filiera, ben avviata – e redditizia - in molti paesi europei (soprattutto dell'Est) ce ne serviamo ogni giorno, recandoci in ristoranti pur immersi in zone folte di cinghiali e caprioli; e di cervi. Da consumatori subiamo distrattamente la suggestione di fruire di un prodotto a km 0 dei nostri boschi, ma spesso così non è. Paradossalmente non veniamo a contatto con il prodotto locale, proprio perché la materia è mal regolata e lascia poco spazio di manovra agli esercizi commerciali.
Eppure già il regolamento (CE) n. 853/2004 stabilisce norme specifiche in materia di igiene degli alimenti di origine animale, e all’allegato III, sezione IV, definisce precisi requisiti per quanto riguarda l’immissione sul mercato delle carni di selvaggina selvatica (sic). Il regolamento non si applica alla produzione primaria per uso domestico privato nonché “ai cacciatori che forniscono piccoli quantitativi di selvaggina o di carne di selvaggina selvatica direttamente al consumatore finale o ai laboratori annessi agli esercizi di commercio al dettaglio o di somministrazione a livello locale che riforniscono il consumatore finale”. La regolamentazione di quest’ultimo aspetto, in applicazione al principio di sussidiarietà, è demandato ai singoli Stati Membri. L’Italia ha provveduto a parziale attuazione di quest’ultima previsione mediante l’accordo tra il Ministero della Salute, le Regioni e le P.A. del 9/2/2006, da ultimo aggiornato e modificato con l’accordo tra il Governo, le regioni e le Province autonome relativo a “Linee guida applicative del regolamento n.852/2004/CE del Parlamento europeo e del Consiglio sull’Igiene dei prodotti alimentari” (Rep. Atti n.59/CSR del 29 Aprile 2010).
Le nuove linee guida avrebbero dunque la finalità di armonizzare le indicazioni relative all’igiene della produzione di carni di selvaggina, nonché le relative attività di controllo ufficiale sul territorio nazionale. Quindi, secondo le nuove regole, la selvaggina abbattuta potrebbe finire sulle tavole in diversi modi. Per esempio rientrerebbe nell’ambito dell’autoconsumo la somministrazione presso un esercizio di ristorazione pubblica – in momenti dedicati e non aperti al pubblico - nell’ambito di eventi conviviali (pranzi e cene) ai quali partecipano i medesimi cacciatori che hanno proceduto all’abbattimento. Chi ha abbattuto il capo dovrebbe (proponiamo il condizionale perchè di queste norme non è stata ancora resa pubblica la bozza ufficiale) presentare un documento di tracciabilità, come da disposizioni regionali specifiche, che dovrebbero provvedere anche ad incentivare o a regolamentare la consegna da parte dei cacciatori dei campioni di muscolo di animali sensibili all’infestazione da trichinella, al fine dell’esecuzione di un piano di monitoraggio della presenza del parassita. Nel caso degli eventi conviviali di cui sopra, l’esercente si dovrebbe a sua volta assicurare che le carni impiegate siano state sottoposte all’esame sanitario. Nelle linee guida (per ora ufficiose) si reperisce anche il regolamento per la fornitura di piccoli quantitativi di selvaggina direttamente dal cacciatore al consumatore finale o agli esercizi di commercio al dettaglio in ambito locale. Praticamente parificata all'autoconsumo, la cessione di piccole quantità, prevede massimo 2 “capo grosso equivalente”/anno, per esempio 1 cervo e due cinghiali adulti, oppure 10 lepri e 3 caprioli”. Le operazioni di eviscerazione dovrebbero passare da un Centro di Lavorazione della Selvaggina, che provvederebbe alle analisi sanitarie. Il cacciatore sarebbe anche tenuto a documentare data e luogo di abbattimento e la destinazione tramite apposito modulo. A sua volta il dettagliante sarebbe tenuto a documentare la provenienza delle carni e l'esito favorevole delle analisi sulla trichinella, attraverso appositi moduli.
Per le carni della selvaggina abbattuta nell’esercizio dell’attività venatoria o di attività di controllo (Legge n. 157/92, art. 19 e legge 394/91), sarebbe prevista una preventiva ispezione veterinaria presso un CLS riconosciuto. Il cacciatore a questo punto verrebbe considerato “produttore primario”. Tra le diverse definizioni si trova anche quella del Centro di raccolta, ovvero uno stabilimento funzionale all’area di caccia destinata al deposito temporaneo delle carcasse degli animali abbattuti in attesa della loro successiva destinazione (autoconsumo, cessione di piccoli quantitativi o ulteriore lavorazione presso un CLS). Le carcasse dovrebbero venire spedite entro la giornata nella quale è avvenuto l’abbattimento.
Il capo di selvaggina selvatica grossa, una volta abbattuto, dovrebbe essere dissanguato e privato al più presto di stomaco e intestino. Chi si occuperà della supervisione di queste fasi? Le cosiddette “persone formate”, ovvero appositamente abilitate dalle autorità competenti che dovrebbero (come già in gran parte succede) predisporre adeguati percorsi formativi per i cacciatori o altre figure interessate. Nel caso in cui, subito dopo l’abbattimento, il capo abbattuto fosse esaminato da una persona formata, la testa e i visceri toraco-addominali potrebbero non accompagnare la carcassa al CLS. In questo caso la “persona formata” dovrebbe allegare alla carcassa una dichiarazione, appositamente numerata, nella quale oltre ad indicare la data, l’ora e il luogo dell’abbattimento, si attesti che l’animale è stato sottoposto ad esame a seguito del quale non sono stati evidenziati segni indicanti che la carne presentava un rischio per la salute. Nel caso dei cinghiali o dell’altra selvaggina sensibile alla trichinellosi, la testa e il diaframma dovrebbero sempre accompagnare la carcassa al centro di lavorazione selvaggina (CLS), punto registrato di raccolta e transito della selvaggina.
Per la piccola selvaggina si prevedono analoghi controlli. Una volta giunte al centro di lavorazione le carcasse andrebbero eviscerate e mantenute ad una temperatura non superiore ai 4°C ed ispezionate dal Veterinario Ufficiale. Nel caso in cui la selvaggina “da piuma” sia soggetta a eviscerazione differita, le carcasse andrebbero mantenute a una temperatura non superiore a +4°C sin al momento dell’eviscerazione.
Le potenzialità del mercato e l'educazione dei consumatori
Sulle potenzialità del mercato, già evidenti in Francia e Spagna (etichetta carni cacciate) molto si è detto durante il Congresso di Lodi. Anna Gaviglio (Vespa - Università degli studi di Milano) ha presentato alcuni dati economici, messi a confronto con sondaggi d'opinione fatti di recente nel nostro Paese. E' emerso che quello della selvaggina è un settore in crescita con grandi potenzialità: ha tutti i requisiti cercati dal consumatore moderno (salubrità, etica, sostenibilità, gusto), ma di contro deve fare i conti con un'opinione pubblica critica sulla caccia. Anche tra i consumatori abituali di selvaggina è emersa una conoscenza limitata e spesso negativa della caccia, per questo come punti strategici di intervento per sviluppare il potenziale inespresso della selvaggina, oltre ad una migliore comunicazione delle caratteristiche nutrizionali, sensoriali e ambientali della selvaggina si mira anche ad un incremento della conoscenza del consumatore sull'attività venatoria (ruolo della caccia nella gestione della fauna selvatica, etica). Un dettaglio: proponendo tre diversi tipi di bresaola (cervo, cavallo, bovino), il 56% ottiene un livello significativo di utilità dalla scelta della bresaola di cervo con l'etichetta “filiera di caccia etica certificata”. Di qui la considerazione che questo tipo di prodotti può aiutare i consumatori a prendere decisioni più consapevoli, con ripercussioni positive sul mondo venatorio.
Un'altra ricerca di mercato, presentata dal Dott. Daniel Vecchiato (Università di Padova), ha indagato le preferenze del consumatore per la carne di cinghiale tra quella allevata e quella cacciata. 510 le persone intervistate a luglio 2019 con questionario on line. I consumatori (a maggioranza disinformati sulla caccia) messi di fronte a tre tipi di salame di cinghiale, prediligono quello proveniente da carne allevata, ma preferiscono quello di carne cacciata con etichetta d'origine rispetto a quello con nessuna informazione sulla provenienza. Il dato cambierebbe secondo gli studiosi, se i consumatori fossero messi a conoscenza dell'etica del prelievo e della sostenibilità di queste carni. Di qui la considerazione che in parallelo allo sviluppo della filiera, dovrebbe correre – e pure speditamente – la riabilitazione sociale del cittadino cacciatore. Come? Tramite una maggiore informazione su cosa è la caccia e quanto sia intrinsecamente legata non solo alla carne di qualità, priva di antibiotici, ma a requisiti etici di rispetto del benessere animale, sempre più ricercati dal pubblico consumatore.
C'è da fare, ma il gioco dovrebbe valere la candela. Di sicuro.
Cinzia Funcis