“L’obliata, potente nostalgia del remoto passato vagabondo che sommersa da secoli dormia affiora su, dell’essere dal fondo; dal brumoso torpore che la grava sorge la belva, e la catena vile addenta e rode, onde la tenne schiava la tirannia del vivere civile.”
Inizia cosi uno dei libri più belli della storia letteraria degli ultimi due secoli: Il richiamo della foresta di Jack London.
Penso spesso a questa frase ogni qualvolta vedo i miei cani. E forse, è un po’ di quell’essere “belva” che vive ancora dentro ognuno di noi, che rende il legame tra il cacciatore e il suo fedele compagno cosi speciale. I cani percepiscono tutto, loro sanno la differenza tra un martedì ed una domenica. Ce ne accorgiamo già dalla sera prima, sono impazienti, vengono continuamente a fissarci, prima si siedono scodinzolanti vicino a noi, poi si spostano indispettiti, per poi tornare e accertarsi se stiamo entrando in sintonia con loro, se riusciamo anche noi, per quanto ci è possibile, a vedere coi loro stessi occhi. Solo allora il loro sguardo si fa più accondiscendente, poiché è in quel preciso momento che l’uomo e il cane diventano un unico elemento.
E questa complicità si riflette durante lo svolgimento della caccia, quando uno scambio di sguardi tra l’uomo e il suo fedele compagno vale più di mille discorsi.
Quando il cane, nel fitto della macchia, si volta per vedere quanto siamo lontani, o semplicemente, per accertarsi se ci siamo.
E penso spesso a questa frase anche quando vedo quei cani addobbati con cappottini e collarini luccicanti, e fiocchi dai colori sgargianti che adornano le loro teste; poveri cani! Costretti a subire “ la tirannia del vivere civile”. Mi chiedo se il “ vestire” un cagnolino sia meno crudele dell’abbattere un selvatico. Privare un cane o un gatto della sua identità, sostituirsi a madre natura che qualche milione di anni or sono pensò bene a come vestirli.
Penso, assistendo a queste scene, agli animalisti che quotidianamente si contraddicono, quando in nome di quella civiltà e moralità che tanto decantano, non si accorgono che sono i primi a compiere gesti immorali e incivili nei confronti di quegli animali che vorrebbero difendere.
E’ facile quando si affrontano questi temi cadere nei luoghi comuni, è facile fare demagogia spicciola, me ne rendo conto. Ma sono sicuro che se i cani o i gatti che vivono con questi “signori” potessero parlare, ne sentiremmo delle belle.
L’uomo, grazie al cane, impara lezioni che con i mezzi dell’l’istruzione ufficiale probabilmente non avrebbe mai appreso; e al contempo il cane impara dall’uomo.
L’uomo e il cane, accomunati dalla stessa passione e dagli stessi istinti, si ritrovano nella caccia , affiancati e uniti, sfruttando i mezzi che l’evoluzione gli ha concesso.
E quando si parla di mezzi, si include anche l’intellighenzia. Ma forse i molti paladini della natura (o presunti tali) credono che l’essere più intelligenti di una lepre o di un qualsiasi altro animale, sia una colpa dell’uomo.
Un cacciatore non abbandonerà mai il suo cane, e non solo per una questione affettiva, ma perché il cacciatore rispetta il cane e la sua natura.
Ed è proprio grazie a questo rispetto e fiducia reciproca, è proprio grazie a questo continuo scambio di informazioni tra l’uomo e la natura che la caccia, nonostante i repentini attacchi dei soliti bigotti, nonostante le continue restrizioni, nonostante i massacri mediatici, continua ad affascinarci. E fino a quando ci saranno boschi in cui cacciare, noi, in compagnia dei nostri cani (e anche da soli), saremo li, perché è cosi che funziona sin dalla notte dei tempi.