Con questo mio modesto contributo intendo fornire ai cacciatori e ai loro amici una serie di stimoli per rispondere a chi, soprattutto in questi giorni, in maniera acritica e spesso senza sapere di che cosa si parla, attacca la caccia a colpi di luoghi comuni del tipo: “Una volta era un’attività necessaria per procurare il cibo. Oggi che senso ha?”; oppure : “Ma voi vi divertite a uccidere…” “Poveri Bambi, che male vi hanno fatto? “ Sono argomenti ai quali spesso non riusciamo a replicare. Eccovi, in breve, un piccolo breviario di risposte.. Perché la caccia? Di tanto in tanto il fronte anti-caccia e dell’animalismo più integralista, deluso dagli insuccessi politici e dal disinteresse della gente, si risveglia di colpo e occupa tutti gli spazi dell’informazione per criminalizzare l’attività venatoria e riguadagnare attenzione e opportunità in un mondo distratto. Basta un pretesto qualsiasi, come per esempio, il tentativo di rinnovare una legge fatta 17 anni fa in un momento in cui la situazione della fauna e dell’ambiente era molto diversa da quella di oggi. Abbandono della collina e della fascia pedemontana hanno creato infatti in pochi anni una situazione alla quale dobbiamo adattare regole e comportamenti. Alcune specie tipiche del nostro paesaggio, caratterizzato dal tradizionale giardino all’italiana, stanno scomparendo. Altre specie hanno colonizzato quelle foreste che hanno preso il posto dei campi di grano. Cambiano fauna e territorio, devono cambiare regole e comportamenti. E anche la caccia cambia: sempre più l’attività venatoria deve mettersi al servizio della società. La caccia come strumento di gestione e conservazione delle specie selvatiche e dell’ambiente. Cos’è la caccia? E’ stato il primo tentativo dell’uomo di organizzarsi in gruppi sociali. E’ stato grazie alla caccia che sono nati il linguaggio articolato, le prime forme di società, , le prime raffigurazioni dell’arte murale, il primo sospetto di Dio. E’ stata la prima possibilità di sopravvivenza in una natura ostile, poi strumento di progresso tecnologico troppo spesso rivolto, purtroppo, alla guerra. Per alcuni secoli – e ancora oggi- la caccia è stata considerata attività fisica all’aria aperta per temprare l’uomo alle difficoltà. Per l’antropologo di oggi la caccia è la risposta culturale all’istinto di aggressività. Per altri è invece metafora poetica della vita e della morte. Forse è tutte queste cose insieme, ma oggi la caccia è soprattutto attività di controllo consapevole e gestione delle specie selvatiche. Cacciatori d’Europa
Sono queste le nuove regole condivise dal mondo scientifico e da quello agricolo, dalle organizzazioni dei cacciatori rappresentate dalle associazioni venatorie nazionali e da organismi internazionali: il C.I.C. (che raggruppa con fini di conservazione tutti i Paesi del mondo) e la FACE che riunisce tutti i cacciatori d’Europa.
I cacciatori danno il loro generoso contributo nei convegni scientifici, apportando le proprie testimonianze e i risultati di ricerche condotte sul campo secondo le indicazioni e le richieste dei tecnici faunistici delle provincie e degli ATC, e degli istituti preposti allo studio e al controllo della fauna selvatica, delle università. Ohne Jagd, kein Wild I cacciatori della Germania, Austria e Svizzera tedesca fanno girare un adesivo verde con un semplice slogan: Ohne Jagd kein Wild. Il che significa alla lettera che senza caccia non c’è nemmeno la fauna selvatica. E’ vero. Lo dimostra cosa è accaduto nel cantone di Ginevra all’indomani di uno sciagurato referendum che abolì la pratica venatoria. Da allora, per evitare che le specie in eccesso arrechino danno alle altre specie e all’ambiente, deve periodicamente intervenire l’esercito.
Nessuno lo dice pubblicamente, ma sono lontani i tempi in cui il controllo delle specie selvatiche nelle aree protette era tabù. Oggi si spara in tutti i parchi, come extrema ratio, per il controllo delle specie in eccesso onde evitare danni alla stessa fauna selvatica, al patrimonio forestale e al lavoro e alla produzione dell’uomo. A volte sono le guardie dei parchi a sparare, altre volte sono gli stessi cacciatori particolarmente esperti. Questa pratica viene erroneamente – e spesso maliziosamente - definita “caccia”. E’ invece un’attività di controllo svolta secondo le indicazioni delle scienza e di chi ha la responsbailità delle aree protette. La caccia è naturale
L’uomo utilizza per la caccia il naturale istinto predatorio di alcuni animali, come il cane e il falco. Spesso, il falco (o altrove il ghepardo) è addirittura l’arma che l’uomo usa in queste discipline venatorie. In natura, ogni specie vive a danno di altre specie. Gli erbivori, tanto per fare un esempio, sono preda e alimento dei carnivori. E a loro volta gli erbivori si nutrono di altre specie, dotate di vita propria, soggette anch’esse al ciclo della nascita, della vita e della morte. E’ una legge naturale alla quale obbediamo anche noi.
Ed è giusto e naturale che il frutto di una giornata di caccia venga consumato a tavola. La selvaggina è cibo sano, privo di colesterolo, che proviene da animali in continuo movimento. Il consumo di selvaggina aiuta anche la bilancia dei pagamenti. Grazie alle tonnellate di carne che proviene da boschi, colline e paludi, ogni anno evitiamo di importare dall’estero altrettante tonnellate di carni provenienti da allevamenti al chiuso: bestiame vaccino, polli, maiali.
La caccia a tavola sta tornando di moda. A Milano, in un elegante circolo cittadino, ogni anno personalità della politica, degli affari, del mondo produttivo, del giornalismo si riuniscono per condividere un rito che risale alle origini dell’uomo: gustare insieme le carni di selvaggina. E’ quello che facevano i nostri antenati cacciatori-raccoglitori per consumare insieme ad altri gruppi sociali il frutto di cacciate collettive. Allora non c’erano i frigoriferi e la carne doveva essere consumata sul momento. Era un grande momento sociale che serviva a stringere alleanze, combinare matrimoni ed evitare i rischi dell’endogamismo, ed a volte erano occasione di trasgressioni collettive. La caccia è gestione Abbiamo detto: caccia a tavola. Ma per godere dei frutti della caccia, occorre che il cittadino cacciatore raccolga soltanto il frutto di un capitale che non può essere intaccato, ma da lui stesso sempre mantenuto sano ed abbondante perché possano goderne anche i nostri figli. Un capitale che non è fatto solo di numeri, ma di colonie che devono mantenere intatta la loro struttura e vivere in un rapporto ottimale con le altre specie selvatiche, con l’ambiente naturale e con il lavoro dell’uomo. Ma per prima cosa occorre sapere tutto su quelle specie sulle quali si deve operare. Queste, per prima cosa, vanno censite. Ogni anno – nel caso della fauna migratoria - i cacciatori catturano uccelli, raccolgono dati, e informazioni che scambiano con altri cacciatori e organismi scientifici di altri Paesi del Paleartico occidentale. Solo in questo modo si può sapere se una specie è in regresso o se sta attraversando un periodo di grande prosperità. Nel caso della fauna stanziale e in particolare delle popolazioni di ungulati, i cacciatori scendono in campo e raccolgono dati sull’esempio del pastore che deve sapere quando e come raccogliere i frutti del gregge. Ma non basta: la natura selvaggia, costretta dall’uomo ormai da diecimila anni in ambiti circoscritti, non sempre riesce a conservare l’ equilibrata struttura di una popolazione, con il giusto rapporto fra sessi e classi d’età. Il cacciatore, servendosi di diverse metodologie e impegnandosi anche fisicamente, deve non solo ”contare” i capi, ma controllare che non ci siano squilibri in quei rapporti interspecifici ritenuti giusti dagli istituti scientifici per una popolazione di un determinato territorio. E questo è un lavoro che il cacciatore fa in maniera volontaria e senza percepire alcun compenso. Il suo premio sarà partecipare alle gestione. La caccia è conservazione
Il cacciatore collabora alla conservazione dell’ambiente nel quale opera. A volte lo fa a sue spese, come quando alcuni anni fa il C.I.C., Conseil International de la Chasse, ripristinò in Senegal una zona umida di 52 mila ettari che era stata prosciugata dal governo di quel Paese sia per costruire una strada militare, sia per un’improvvida politica agricola che poi si rivelò un fallimento. Il risultato di questa operazione di regime fu che il clima in quella zona del Paese al confine con la Mauritania si inaridì, molte specie di animali acquatici non raggiunsero più l’Europa, migliaia di persone furono sradicate a condannate a una vita grama nelle bidonville di Dakar. Il C.I.C., su richiesta delle associazioni dei cacciatori senegalesi, intervenne finanziando un costoso progetto: unire con un canale di 12 chilometri una vicina palude con l’alveo ormai inaridito della vecchia zona umida. Grazie ai cacciatori, in quel territorio tornò la vita. I profughi tornarono alle loro case dedicandosi di nuovo alle loro attività di pescatori, di cacciatori e di allevatori. Il clima tornò ad essere temperato. Alzavole e marzaiole frequentarono di nuovo le zone umide di tutta Europa. Questo lavoro è stato fatto in silenziosa solitudine. Al contrario, le associazioni ambientalistiche ricavano finanziamenti e applausi per aver creato piccole oasi dove esercitare la propria esclusiva potestà.
Per fare un altro e più recente esempio, il Safari Club italiano, associazione di cacciatori giramondo, ha finanziato il lavoro che scienziati e forestali hanno fatto per rimediare ai danni creati dalla rogna sarcoptica che aveva decimato camosci e stambecchi della provincia di Belluno. Sono stati catturati nelle montagne del Tarvisiano alcuni animali che erano sopravvissuti a una precedente epidemia (e quindi ormai esenti dal contagio), e questi stessi sono stati rilasciati nelle montagne del bellunese in modo da costituire una nuova colonia.
Ecco un altro esempio di diverso genere. In periodi particolarmente duri i cacciatori della zona Alpi si impegnano nel foraggiamento invernale di cervi e caprioli in difficoltà a causa delle forti nevicate. Anche qui, il solito critico potrà dire: “Beh, lo fanno per salvaguardare il proprio capitale”. Ma dimenticano che quel lavoro va a vantaggio di tutti e che quel capitale non appartiene ai cacciatori ma secondo la legge “è bene dello Stato”. La caccia è conoscenza
Il cacciatore, per tradizione, batte le strade del sapere. I nostri vecchi conoscevano versi, abitudini, stagioni, comportamenti dei migratori che insidiavano sapientemente al roccolo o al capanno. I moderni cacciatori sono aggiornati sulle problematiche scientifiche e ambientali, frequentano corsi per sele-controllori, partecipano alle campagne per la raccolta delle ali di beccacce e turdidi, inseguono in montagna il canto di coturnici e dei tetraonidi per monitorare la loro presenza e consistenza. E lo fanno senza aspettarsi premi o senza nutrire speranze di profittarne all’apertura della caccia. Altre volte spendono risorse economiche, sempre per allargare le loro conoscenze. Come quei cacciatori che si attrezzano con costosi apparati elettronici o tengono in piedi, solo a fini scientifici, sofisticati impianti arborei dove catturano, misurano, inanellano uccelli di passo, scambiando i dati raccolti con quelli di tutta Europa. O quegli altri che hanno affittato l’intera isola di Vormsi in Estonia, solo per avere sempre più notizie sulle migrazioni di beccacce che osservano amorevolmente in una sorta di nordico paradiso terrestre . E non sono che pochi esempi. La caccia è cultura
E’ curioso come dietro l’uccisione di un vitello per rifornire i banchi del macellaio non ci sia altro che un cruento atto materiale, banale e quotidiano, che trasforma una creatura in filetti, fese e coda alla vaccinara. Non c’è traccia di cultura e nemmeno di esorcismo della morte. Nell’abbattimento di un cervo (un cacciatore non dirà mai “uccisione”) c’è invece un universo di cultura che va dai concerti per corni di Haydn e Rossini, alle pagine di Tolstoi, Turgheniev e Hemingway, dalle pitture rupestri dei nostri antenati cavernicoli agli arazzi Gobelin e ai quadri del Domenichino. La gente ignora quanta cultura giri intorno al mondo della caccia, quanti scrittori di fama mondiale, pittori, musicisti abbiano preso ispirazione dall’antico rito. Esiste addirittura un vasto mercato di antiquariato venatorio, dove alcuni pezzi rari raggiungono quotazioni da capogiro. A volte, la cultura venatoria copre anche il versante religioso. L’invocazione “Viva Maria!” echeggia nelle macchie della Maremma ogni volta che i cacciatori abbattono un cinghiale. La tradizionale messa di Sant’Uberto alla quale i cacciatori possono assistere con cani e fucili, mantenendo in testa il cappello, è un altro esempio. Sono giunti anche da noi, provenienti dalle foreste del Centro Europa, le usanze pagane di esorcismo della morte. E’ il rito germanico del Waidmannsheil, e l’offerta del rametto insanguinato al cacciatore responsabile dell’abbattimento, come una richiesta di perdono all’animale sacrificale trasformato per un attimo in divinità silvana. E anche questa è una forma di religiosità panteistica.
Questo è un aspetto sul quale nessuno riflette, né i detrattori della caccia né gli stessi cacciatori, troppo spesso impegnati a cercare altrove giustificazioni al loro operato. La caccia è tradizione
La caccia attraverso i secoli porta con sé i valori della tradizione. Antiche fiere di paese che hanno al centro le nostre tradizioni vivono ancora oggi e ancora oggi rappresentano un momento di incontro fra i cacciatori e la gente. Un esempio: ogni anno, a partire dall’agosto del 1274, la Fiera degli Osei richiama da tutta Italia appassionati della caccia al capanno che si danno convegno a Sacile, una storica cittadina in provincia di Pordenone. Ed è tutto un gorgheggio, un concerto di mille piccole gole canore, di uccelletti sia da richiamo che da compagnia. E con loro gareggiano gli imitatori. Sono i chioccolatori, cacciatori che – spesso per tradizione di famiglia - riescono a imitare i versi d’amore che fanno gli uccelli e del quale una volta si si servivano per richiamare le loro piccole prede. Era una necessità alimentare, un apporto di proteine nobili nelle povere diete dei nostri nonni. Ormai le piccole cacce si sono ridotte al tordo, al merlo e all’allodola. Ma la tradizione vuole che gli appassionati di questa antica arte minore, praticata in tutte le regioni d’Europa che si affacciano sul Mediterraneo, si esibiscano imitando tutte le specie possibili, anche quelle che non sono più cacciabili. E addirittura ogni anno si riuniscono in vere e proprie competizioni internazionali, una sorta di olimpiadi del bel canto.
Ma il rispetto delle tradizioni ha altre manifestazioni come i concerti dei corni da caccia, che la cultura contemporanea ha riscoperto e diffuso ovunque. E così i grandi corni francesi che segnalavano gli spostamenti della selvaggina durante le battute della nobiltà. O i più modesti gruppi di corni da caccia che rallegrano assemblee, riunioni, feste, matrimoni o a volte inducono alla commozione quando salutano qualche cacciatore che ci ha lasciato. La caccia è donna Diana, la dea della caccia, è donna. E oggi sono sempre più le donne che si sono fatte conquistare da questa passione che si riteneva fosse squisitamente appannaggio del genere maschile. Alto Adige e Trentino sono le zone dove le donne hanno ceduto più che altrove alle lusinghe di Diana. La Toscana, possiamo dirlo, è al terzo posto. La presenza delle donne ha migliorato comportamenti e stili di vita dei loro colleghi uomini, nell’aspetto esterno- come l’abbigliamento che sempre si rifà al buon gusto della migliore tradizione contadina- nei rapporti col resto della società, nelle iniziative benefiche, educative e culturali. La caccia è stare insieme
Il mondo della caccia organizza ovunque manifestazioni per favorire l’incontro fra il mondo della caccia e la società civile. Sono momenti di aggregazione, come il Game Fair, quella grande festa campestre che ogni anno si svolge nella pineta e nel tombolo di Tarquinia, nella Maremma laziale. Lì il mondo della caccia, con il suo spirito festoso, si incontra col resto della società civile in un abbraccio che non risente delle accuse e delle incomprensioni seminate ad arte da professionisti del consenso, complice l’ignoranza e la disinformazione. La caccia è produzione e lavoro
Altro aspetto che non si può trascurare è quello legato alla produzione e al lavoro. In occasione di fiere come l’Exa di Brescia ogni anno viene presentata la produzione nazionale di armi – considerata un’eccellenza mondiale -, viaggi, buffetteria che dà lavoro a 120 mila italiani per un fatturato annuo di oltre cinque miliardi di euro. La caccia è presidio sul territorio Questa è la caccia, la prima delle attività dell’uomo che nei secoli ha cambiato più volte finalità. Oggi la caccia, che parte da un istinto primordiale come è quello della sopravvivenza, si nutre di una motivazione moderna, utile al resto della società: la conservazione e la gestione delle specie. Un’attività che se si svolge nell’arco di pochi mesi, tiene impegnato tutto l’anno il cittadino cacciatore. Bruno Modugno |