Se il fringuello, oggetto del desiderio di moltissimi cacciatori, ancora, scorre periodicamente agli onori delle cronache, soprattutto quando qualche incauto (così percepito dall'intellighenzia salottiera, e non fa differenza se sia di destra o di sinistra) assessore regionale ne propone un prelievo in deroga, vista la sua abbondanza e probabilmente il suo contributo al dilatarsi del conto ormai salato dei danni in agricoltura.
Se si riempiono i giornali strappandosi le vesti per la tortora, che anche alla preapertura se n'è già andata insalutata ospite, o per l'allodola o il tordo sassello, esclusivamente per rompere le scatole ai cacciatori.
Se si grida allo scandalo per la caccia alla pernice bianca, da sempre contingentata, seppur minacciata da sciatori ed escursionisti della montagna.
Se tutto questo ha un nome e un cognome, che corrisponde a quell'associazione che effettua ricerche sulla materia e cioè la LIPU (Lega Italiana per la Protezione degli Uccelli), appare strano leggere pagine di autorevoli quotidiani che - a sorpresa - prendono a sostegno anche testimonianze espresse da esponenti della LIPU stessa per richiamare l'attenzione sulla palese precarietà di una specie, non oggetto di caccia, come il passero italiano (passer italiae), non diversa, come precarietà, da quella del passero domestico. Eppure, questo uccelletto, un tempo oggetto di caccia, ma ormai fuori lista da decenni, è conosciuto da tutti. Come sembra sia nota la sua condizione precaria. Molto precaria.
Eppure la Lipu non gli dedica quell'attenzione che riserva ad altri uccelli. Sarà mica perchè il Passero d'Italia potrebbe richiamare l'attenzione su ben altri problemi, che - lo sanno tutti - sono in cima alla lista delle cause che stanno gravemente impoverendo il nostro patrimonio avifaunistico?
Per saperne qualcosa bisogna ricorrere a un quotidiano, La Repubblica, che certamente non è mai tenero con la caccia: basta soffermarsi su quelle frequenti scorrerie della per noi famigerata Margherita D'Amico, probabilmente una apprezzata frequentatrice di salotti delle gattare romane, che di biologia ne sanno quanto un cercopiteco. Mi riferisco al servizio - una pagina intera - di Giuliano Aluffi del 27 agosto scorso ("La resistenza del passerotto che cambiò il Dna per noi"), dove si colma quel vuoto sempre lamentato dai nostri ricercatori ("ci mancano i fondi per approfondire le ricerche"), riportando i risultati di un lavoro scientifico condotto in Svezia - fin lassù bisogna andare per sapere del passero "italiano" -, che certamente non sarà sfuggito ai nostri ricercatori dell'Ispra e ai solerti vertici della Lipu (c'è da immaginare che Marco Dinetti, responsabile ecologia urbana di quell'associazione, qualcosa gli abbia detto).
Cosa s'impara, stavolta, leggendo questo servizio?
S'impara che questo passerotto vive con noi da almeno 11mila anni, in concomitanza all'invenzione dell'agricoltura, aumentando la propria popolazione intorno ai 6mila anni fa e modificando addirittura il proprio Dna per adeguarsi all'evoluzione delle pratiche agricole e ai cambiamenti dell'ambiente (sempre più antropizzato, sempre più domestico). Ad affermarlo è Mark Ravinet, genetista dell'Università di Oslo, che conferma questa specie di simbiosi atavica con l'uomo. Come mai, allora, in questi ultimi decenni questa simbiosi l'ha portato praticamente a dimezzare e forse più i propri contingenti?
Non certo per cause di caccia, ovviamente, visto che non rientra da tempo nell'elenco delle specie cacciabili. "Un fattore chiave - dichiara ad Aluffi Paolo Galeotti, docente di biologia all'Università di Pavia - è il calo del 40-45% nelle popolazioni di insetti. I passeri sono granivori. Ma i piccoli nel nido, bisognosi di di proteine, vengono nutriti con insetti. Fattori secondari possono essere la predazione da parte di gatti e cornacchie, e non escluderei le grandinate: gli eventi climatici sono oggi più frequenti". E, spiega anche Lorenzo Serra dell'Ispra, "il quasi dimezzamento degli insetti è effetto dell'uso intensivo di pesticidi. Un altro problema di cibo sono i cambiamenti del paesaggio agricolo: l'aratura precoce ha fatto diminuire tante popolazioni di uccelli perchè se si ara subito dopo la mietitura, sparisce l'appetitosa sterpaglia ricca di semi e d'insetti".
Se due più due ancora fanno quattro, anche alla Lipu si dovrebbero convincere che almeno con maggiore vigore rispetto alle campagne allarmistiche contro i cacciatori, dovrebbero innestare la quarta soprattutto contro questi fenomeni. Insomma, se soffre la tortora, ma a nostro avviso la questione - eventualmente - sarebbe analoga (mancanza di cibo, che non dipende certo dalla caccia), a maggior ragione soffre anche il passero. Perdipiù, visto che per documentarlo hanno usufruito di soldi pubblici, avendo qualche anno fa (2009) ricevuto un incarico dal Ministero dell'Ambiente (e Ispra) per effettuare una ricerca (Valutazione dello stato di conservazione dell'avifauna italiana), dove appare chiaramente che il problema per gli uccelli selvatici è il degrado ambientale, agricoltura moderna compresa, e non la caccia.
Una riprova? La troviamo in una recente testimonianza di Heinrich Aukenthaler, apprezzato esperto altoatesino, che attribuisce alle stesse ragioni - mancanza di un'habitat adatto - la scomparsa quasi totale dalle sue valli di specie un tempo comuni, e ormai escluse da qualsiasi azione di prelievo venatorio. In particolare: il codirossone, l'ortolano, lo zigolo muciatto, lo zigolo nero, la bigia padovana.
Sarà dunque mancanza di sensibilità questa distrazione della Lipu per il benessere di tanti uccelli piccoli e meno piccoli, che se la passano peggio di altri oggetto delle nostre attenzioni? Ognuno di noi, ognuno di voi, se non ci ha ancora riflettuto, ci faccia un pensierino. E solleciti l'argomento all'attenzione anche di tutti coloro che, ignari, continuano a pensarla come quelli della Lipu, confondendo il grano col loglio (detto anche zizzania). Amministratori pubblici, legislatori, maitre a penser di varia estrazione, strimpellatori del web.
Buone riflessioni.
Vito Rubini
Nota: alcuni esponenti di governo sollecitano in questi giorni un’operazione di trasparenza che obblighi partiti e fondazioni a rendere completamente pubblici i loro bilanci, donazioni e nomi dei donatori compresi. Niente da obiettare, anzi. Noi comuni mortali che compiliamo ogni anno la denuncia dei redditi, siamo obbligati alla totale trasparenza. Giusto che lo siano anche gli altri, soprattutto coloro che godono di proventi... dalle nostre tasche provenienti. Ma, allora, proprio per questo, non sarebbe male che a tale trasparenza fossero assoggettati tutti coloro che - appunto - godono di sovvenzioni pubbliche (ad esempio 5 e 8 x1000, ma non solo). Associazioni ambientaliste e animaliste comprese. Forse si riuscirebbe a capire meglio perchè certuni orientano i loro strali verso certi obbiettivi piuttosto che verso altri.