Parlare di caccia per me è sempre stato divertente e interessante, perché questa mia passione ha condizionato la mia vita sin da bambino. Attualmente, però, mi sono accorto che le cose sono cambiate: non solo cinofilia e caccia sono completamente scollegate, ma anche tra gli stessi cacciatori si parlano lingue diverse. Infatti, adesso prima di parlare di caccia bisogna chiarire cosa s’ intende “cacciare con il cane da ferma” nel 2000 in Italia. Non chiarendo questo si rischia di parlare senza essere compresi o peggio di essere fraintesi.
Per semplificare esistono due modi:
1) Cacciare selvaggina immessa da più o meno tempo, quindi non selvatica, in buona densità, con un comportamento semidomestico, senza nessuna difficoltà di reperimento e tanto meno di risoluzione: in pratica gli uccelli fungono da “ARBRE MAGIQUE” per provocare la ferma del cane che non dovrà possedere particolari doti oltre alla ferma e allo stile.
2) Cacciare uccelli che non è possibile immettere quindi in numero limitato distribuiti in terreni ampi e impegnativi dove per essere reperiti il cane e il cacciatore dovranno impegnarsi al massimo e quindi verificare quelle doti di passione, tenacia, fondo, intelligenza, naso, che sono indispensabili in questa attività e poi chiaramente anche ferma, guidata, consenso magari anche lo stile di razza.
Non intendo dire che un cacciatore che pratica un tipo di caccia è migliore o peggiore di un’altro, perché molto spesso non è una libera scelta ma è questione di residenza geografica, di disponibilità di tempo e di denaro, di passione, di cultura e così via, ma è un dato di fatto che tra uno che caccia in un fagianodromo e uno che caccia i galli o le beccacce, le differenze sono abissali, i bisogni cinofili sono diversi e quindi i loro cani avranno caratteristiche completamente diverse.
Questo non vuol dire che tutti devono andare a galli o a beccacce, per fortuna non siamo tutti uguali, non abbiamo lo stesso grado di passione, lo stesso tempo, la stessa voglia di camminare e poi è capitato a tutti di cacciare la selvaggina immessa anche solo per allenare il cucciolone, però se parliamo di selezione cinofila legata alla caccia, perciò di prove specialistiche, bisogna aver chiaro il concetto che un cane che galoppa in stile e ferma in stile un animale immesso, potrà contribuire solo in minima parte alla selezione di questo famoso cane da caccia da tutti sognato, perché sono state verificate solo alcune delle doti richieste e tra l’ altro le meno importanti.
Per tornare al discorso della caccia vissuta o cacciata, lasciando un attimo da parte la selezione cinofila, per me il fascino della caccia rappresenta l’incertezza della cattura, la lotta, anche se impari, tra il cacciatore-cane e la selvaggina; il fatto di saper dall’inizio come andrà a finire toglie tutto il piacere. Per paragonare queste sensazioni all’ immaginario collettivo maschile, visto che parliamo di passioni forti, andare a caccia in un fagianodromo è come fare sesso a pagamento: si sa già come andrà a finire, tutti con qualsiasi cane potranno avere il proprio “orgasmo” .
Cacciando invece selvaggina vera, se la si riuscirà a conquistare si avrà la soddisfazione di pensare che solo grazie all’abilità di se stessi e a quella del cane si è riusciti a “possederla”.
Mi perdonino le signore per l’esempio un po’ troppo maschilista, ma al giorno d’oggi si può tranquillamente rovesciare questo esempio.
Altra osservazione che deriva dalle molte ore che passo con i cani nel bosco o in montagna (con il fucile o senza) è la differenza tra un buon cane e un ottimo cane da caccia, vale a dire quella capacità del cane stesso di continuare a cercare anche in assenza di stimoli esterni. Mi spiego meglio: una buona densità di uccelli (che permette un incontro ogni mezz’ ora) oppure un terreno disseminato di “fatte” di beccaccia (anche dei giorni precedenti) dà quella carica al cane che gli permette di tenere a lungo; è come se “sniffasse continuamente cocaina”, quindi anche un cane mediocre apparirebbe di gran fondo e tenacia. Ho toccato con mano questa esperienza portando cani in Crimea o in Sicilia, illudendomi di aver trovato il “mostro”, poi al ritorno nelle mie zone di caccia, dove la pagnotta è molto più dura, mi rendevo conto che, facendoli girare in terreni dove la beccaccia non aveva messo piede da giorni, il comportamento era totalmente diverso. Non è un caso che nelle zone ricche di selvaggina, non vengono fuori grandi cani, o meglio, cani con quella grinta che gli permette di cercare con la stessa determinazione per sei o sette ore al giorno, anche in assenza di emanazione. Un modo per misurare la densità di beccacce sul terreno è l’indice cinegetico di abbondanza (I.C.A.), che sarebbe il numero di beccacce diverse alzate da un cacciatore in tre ore e mezzo di caccia. Or bene l’I.C.A. del cacciatore medio di beccacce in Italia è attorno allo 0,5, ovvero un incontro ogni sette ore di caccia. Va quindi da sé che il cane che fa la differenza sarà quello che riuscirà a cacciare per tutto quel tempo mantenendo inalterate tutte le sue qualità. Secondo la mia esperienza questa è la dote più rara nelle linee di sangue attuali.
Molti cani trattano bene la beccaccia, ma il fuoriclasse è quello che trova l’unico uccello presente in quel bosco anche alle tre del pomeriggio. Questo plus valore che distingue i grandi cani da quelli bravi, ha una doppia funzione: oltre a portare all’incontro, dà benzina e morale alle gambe del cacciatore che asseconderà con piacere questa voglia di soffrire del suo ausiliare, poiché, come dicevo, a caccia in Italia oggi, la cosa più difficile è reperire la selvaggina (poi, naturalmente, “trattarla” bene). Questo perché anche in prova “bisogna incontrare”per andare in classifica, solo con le magnifiche prestazioni e i richiami non si va da nessuna parte. Nella selezione cinotecnica, un cane che possiede anche questa caratteristica, per me vale oro. E’ per questo che quando valuto un cane per un accoppiamento , tengo molto in considerazione, oltre alle qualità del cane stesso, anche le caratteristiche del proprietario (che tipo di caccia pratica, e soprattutto per quante ore la pratica), perché quel “plus valore” che dicevo prima, sempre più raro nei cani da prove, almeno può essere in parte verificato.
Sicuramente nei furgoni dei dresseur ci saranno tanti cani che nelle mani giuste diventerebbero ottimi cacciatori, ma manca la verifica della caccia e non si può dar per scontato che dove c’ è la qualità (intesa come stile di razza) c’ è tutto, anzi spesso è vero il contrario: alcuni cani che nel turno appaiono senza difetti stilistici, se portati a caccia per alcune ore diventano inguardabili come, e se non peggio, dei cosiddetti cani da caccia.
Sempre dalla mia esperienza personale posso affermare che alcune caratteristiche si possono apprendere con l’allenamento e le abitudini, ma la maggior parte sono ereditarie (passione, intelligenza, olfatto), quindi non è vero che tutti i cani se abituati cacciano 5-6 ore per diversi giorni, quindi non conta fargli vedere la selvaggina in abbondanza e alimentarlo bene, ci vogliono quelle doti intrinseche che la selezione ci permette di mantenere.
Le doti venatorie, quindi, devono essere alla base di tutto, poi migliorare sempre più lo stile, il processo inverso è pericoloso perché una volta smarrite le doti venatorie all’interno di una razza è difficile reintrodurle. Dal momento che la nostra selezione è improntata sulle prove di lavoro, saranno determinanti i criteri di valutazione e di giudizio, in modo da dare l’input giusto agli allevatori e a tutti i cacciatori che avranno il coraggio (mi sembra il termine giusto) di presentare il proprio cane.
Per questo è pressante il bisogno che i giudici abbiano un criterio comune di valutazione soprattutto sulle prove di caccia. Laverak diceva che le prove non erano altro che la finzione della caccia (vorrei far notare che parla di finzione e non di simulazione) se poi abbiamo a disposizione selvaggina non autentica e giudizi non omogenei, la prova diventa una finzione della finzione della caccia, quindi abbreviando diventerebbe una FARSA.
Giancarlo Bravaccini