Pensando alla nostra caccia, mi viene in mente Pinocchio. Quando il burattino, febbricitante nel letto della Fatina dai Capelli Turchini, era circondato da esimi luminari della medicina, un corvo, una civetta e un grillo-parlante. Interpellati dalla Fatina, uno dopo l'altro dettero il loro responso. "A mio credere - disse il Corvo - il burattino è bell’e morto: ma se per disgrazia non fosse morto, allora sarebbe indizio sicuro che è sempre vivo!".
"Mi dispiace, — disse la Civetta — di dover contraddire il Corvo, mio illustre amico e collega; per me, invece, il burattino è sempre vivo; ma se per disgrazia non fosse vivo, allora sarebbe segno che è morto davvero.". "E lei non dice nulla? — domandò la Fata al Grillo-parlante. "Io dico che il medico prudente, quando non sa quello che dice, la miglior cosa che possa fare, è quella di stare zitto. Del resto quel burattino lì, non m’è fisonomia nuova: io lo conosco da un pezzo!".
Sono anni, ma che dico?!, decenni, che intorno alla caccia girano e rigirano falsi medici, sciamani, cerusici, barbieri (n.d.r.: il barbiere spesso praticava salassi) e ciarlatani, insieme a qualche raro luminare, che a volte viene pure sbeffeggiato. Una triste realtà, nella quale è difficile discernere quel buono che c'è da quel tanto, troppo, di presunzione, di prosopopea, di demagogia spicciola e di scienza maldigerita che imperversa.
Lo so, è difficile trovare la cura giusta per un'attività dominata dalla passione, forse ancora dall'istinto, antica come il mondo, in un mondo, purtroppo, che cambia le regole e i comportamenti con una velocità mai registrata nella storia. Con l'aggravante, ormai abbastanza chiara anche ai freschi di saggezza, che il principale difetto dei progetti che circolano sta nella mancanza di giovani neuroni, sinapsi in divenire, cervelli capaci di conformarsi ai cambiamenti. Una nuova classe dirigente, insomma, al momento purtroppo asfittica e - per quel poco che è - anche largamente inadeguata, impreparata. Forse servirebbe anche un cambio di paradigma, una visione rivoluzionariamente prospettica come - forse - potrebbe dare l'altra metà del cielo, che in altri campi sta conquistando piano piano il pianeta.
Si assiste, dunque, proprio di questi tempi, a un dibattito stretto sui temi più caldi, controllo delle specie opportuniste (fra cui metterei il cinghiale, ma anche il lupo), abrogazione dell'842 (privatizzazione della caccia, come in quasi tutto il pianeta, seppur secondo modelli diversamente articolati), ATC, tempi di caccia, specie cacciabili, gestione.
Gestione. Qui casca l'asino. Qui - come diceva Benigni - c'è chi la vuole cotta e chi la vuole cruda. Spesso si dimentica che, non in natura - nei paesi cosiddetti avanzati, di wilderness (natura selvaggia) non c'è più niente - ma nel contesto regolato dall'uomo compatibilmente con le leggi della fisica e della chimica, la prima cosa da fare per mantenere degli equilibri "utilitaristici" non solo nell'immediato ma durevoli nel tempo, la prima cosa da fare è quella di valutare tutto nel suo insieme. Nel nostro caso: rapporti inter e intraspecifici, attività antropiche (agricoltura, forestazione, turismo e tempo libero, sfruttamento delle risorse e del suolo), univocità di gestione fra aree protette e aree concesse alla libertà d'intrapresa. Caccia compresa, ovviamente.
Su questo, c'è ancora qualcuno, seppur blasonato, che insiste nel mettere in risalto l'incidenza sul sistema da parte del numero dei cacciatori, quando negli ultimi venti-trent'anni questo numero si è ridotto ad un terzo o giù di lì. Ponendo implicitamente in secondo piano le cause principali che ormai è più facile trovare in ambito ambientalista (quello serio, che purtoppo in Italia difetta), piuttosto che fra i nostrali addetti ai lavori, almeno quelli che hanno dismesso la giubba del padulano o del maremmano per atteggiarsi ad austrungarico, magari rasandosi il cranio e facendosi crescere i favoriti, alla Ceccobeppe.
La caccia italiana potrà avere ancora un futuro rispettabile se riuscirà a mantenersi saldamente collegata alle proprie radici popolari. Noi siamo "migratoristi", lepraioli, cultori della piccola selvaggina per il cane da ferma. Tutte forme di caccia che - nel rispetto delle mitologie della braccata e dell'elitario rito del waidmansheill (!) - hanno bisogno, oggi come ieri, di cacciatori competenti (e ce ne sono, anche fra i tecnici di riferimento), responsabili, che prima di tutto si preoccupino di mantenere integro, adatto, un territorio che invece sta soffrendo di infinite aggressioni anche in quelle aree che certi bempensanti (ipovedenti) si ostinano a considerare "protette", solo perchè sono segnalate da cartelli. Fa sorridere, ma dovrebbe anche far riflettere, ad esempio, che ci siano "tecnici", esperti faunisti, che continuano a porre l'accento sul piombo delle cartucce (facilmente asportabile almeno nelle aree di massima concentrazione: valli da caccia agli acquatici), quando quella stessa acqua non solo della valli, ma dei fiumi, dei laghi, delle falde acquifere stesse, ha raggiunto livelli di inquinamento chimico che dovrebbero allarmare le intere comunità.
E per chiuderla ancora con Pinocchio, che udendo le sentenze di quei luminari comincia a singhiozzare (per la triste circostanza, verrebbe da pensare, che lo ha fatto cadere nelle mani di certa gente), neppure io saprei se gioire o disperarmi.
"Quando il morto piange è segno che è in via di guarigione" disse solennemente il Corvo. "Mi duole di contraddire il mio illustre amico e collega, — soggiunse la Civetta — ma per me quando il morto piange, è segno che gli dispiace a morire".
Ma forse aveva ragione il Grillo-Parlante. Siamo noi che ci dobbiamo dare da fare. Valutare una volta per tutte le nuove situazioni, preparare una nuova classe dirigente, supportata da quelle competenze che - rivalutate alla luce dell' odierna conoscenza - abbiamo da sempre dentro di noi, fin da quando siamo nati, figli del tempo, delle stagioni, delle pratiche di buongoverno della campagna (macchè wilderness!?), di generazione in generazione.
Vito Rubini
P.S. Consiglio a tutti di riascoltare Edoardo Bennato, nella canzone a cui si riconduce il titolo.