DOVE VA LA CACCIA. INCHIESTA DI BIGHUNTER.IT
La vita e il lavoro mi hanno dato l’opportunità di provare non tutte, ma certamente molte forme di caccia, alcune saltuariamente altre ripetute nel tempo. Dagli acquatici al capanno, dalla montagna al padule… Ognuna è stata in grado di regalarmi emozioni e ricordi, ma confesso che solo nella caccia col cane da ferma ho trovato la mia misura, un senso di completezza derivante più che dal risultato finale dal lavoro fatto in sintonia con l’ausiliare, frutto anche di un rapporto molto stretto che ho sempre avuto con i miei cani, parte della famiglia a tutti gli effetti e compagni per 365 giorni l’anno.
Il campano che improvvisamente tace nel folto, una guidata che sembra senza fine, lo sguardo complice del tuo cane quando ti lascia in mano il selvatico abbattuto, ancora oggi, dopo tanti anni, mi stringono la gola e mi fanno tremare i polsi.
In un ipotetico podio, ma seconde a pari merito, il cinghiale in braccata e la selezione sono le altre due cacce che preferisco. Corale e adrenalinica la prima, solitaria e – apparentemente – quieta la seconda, entrambe mi affascinano e mi avvincono.
Molto è cambiato da quando ho iniziato a cacciare. Ambienti, tipo e presenza di selvatici, in qualche caso il modo di insidiarli… Non è cambiata purtroppo la considerazione in cui la società - e spesso le Istituzioni - tiene la caccia e i suoi praticanti. Conosciuta dalla maggior parte delle persone solo in modo vago e per cliché, da molti non è nemmeno avversata, ma proprio sostanzialmente ignorata. E la loro opinione è quindi facilmente indirizzata dalle consuete campagne delle sigle abolizioniste e di quelle ormai ex ambientaliste che hanno abbracciato per moda e convenienza più che per convinzione le derive animaliste e vegane che stanno purtroppo dilagando. E lo dico indipendentemente dalla caccia.
È una minoranza “chiassosa”, agguerrita, convinta e vanta efficaci influencer di vario tipo, da attori a cantanti, scrittori e giornalisti di spicco, riuscendo così a condizionare le scelte della politica e la vita di tutti.
Il fenomeno è complesso e come dicevo ritengo che in pericolo non sia solo la caccia, che ovviamente non può trovare posto in quella visione del mondo, ma il modo stesso di vivere cui siamo abituati.
E con la consueta superficialità, senza approfondire in alcun modo, sempre più ampie fasce della società, specialmente urbana, ma non solo, sono pronte ad aderirvi, ispirate in modo spesso sottile e proprio per questo più efficace.
Anche senza arrivare agli estremi – perversi – dell’animalismo, più in generale si è assistito negli ultimi decenni a una perdita di una ruralità che non sia rappresentata dal fine settimana in qualche agriturismo, che spesso di “agri” ha ben poco. Della ruralità, della campagna, gran parte della società, che oggi è soprattutto urbana, ha una visione falsata, idilliaca…. Un luogo geograficamente indefinito dove trascorrere le ferie, riposare in pace e senza rumori, mangiando cibo sano e saporito di cui ipocritamente spesso si fa finta di non conoscere l’origine animale.
Sembra che il “cittadino” non riesca a concepire un modo meno artefatto e asettico di vivere il rapporto con l’ambiente, gli animali - selvatici e allevati - o le persone, tanto che sono stridenti le reazioni di chi inseguendo quello che se non un sogno è quantomeno una inconsapevolezza si trasferisce dalla città alla campagna.
Tutto questo ovviamente crea ostilità nei confronti della caccia, che rientra da sempre nel novero delle attività rurali. Di queste noi cacciatori dobbiamo tener conto, con un occhio al futuro. Senza concezioni arcaiche, ma sostenendo e aggiornando i valori della tradizione. Ricca di valori e principi ancora in gran parte attuali, su cui innestare modelli nuovi.
Mutamenti climatici, consumo del suolo, pratiche agrarie e forestali sostenibili, sfruttamento delle risorse, fauna compresa, sono temi di cui la caccia a livello europeo già si occupa. Ma lo deve fare ancora di più e con maggiore attenzione.
Le conseguenze degli squilibri ambientali sono evidenti a tutti: i cacciatori fanno parte anch'essi della soluzione. È compito nostro occuparci di salvaguardare la biodiversità, bene universale di tutti, e in cambio di questo nostro impegno vedere riconfermato il nostro diritto alla caccia, all’accettazione e al rispetto da parte della società. Facendo comprendere anche che della biodiversità fanno parte la complessità e la diversità delle diverse culture, compresa la nostra, il nostro modo di vivere la natura, da preservare anche da chi non va a caccia.
I diversi aspetti della caccia - passione, dedizione e scienza - possono tranquillamente coesistere e non sono in contrasto fra loro. Il cacciatore deve sostenere la caccia con la scienza. Lo fa da sempre. Prima grazie alla sua esperienza, oggi con prove oggettive e condivisibili, che dimostrino che si contribuisce alla salute delle specie oggetto di prelievo.
È provato che l’uso sostenibile della fauna applicato attraverso una caccia regolamentata e ben regolata è un efficiente meccanismo di conservazione. È questo che dobbiamo promuovere. È questo che dobbiamo condividere dimostrando con i fatti che non si tratta di propaganda o di percezioni personali, ma di una realtà oggettiva. Che fa parte da sempre, si può dire, del nostro vissuto, di quella che chiamiamo giustamente passione. Una passione mai disgiunta dalla ragione, dalla consapevolezza che andare a caccia non è solo tirare il grilletto. Forse non lo è mai stato, certamente non lo è più. Ma la gente comune a tutto questo non pensa.
È stato detto che “La migliore comunicazione che i cacciatori possono avere è che gli altri parlino bene di loro”. Anche nella comunicazione la caccia deve uscire all’esterno e lo deve fare cercando alternative, per superare la disinformazione imperante. Tutti possiamo fare qualcosa. Torniamo a parlare con gli altri, comunichiamo con chi non è cacciatore. Parliamogli almeno in parte di quel bagaglio di cultura, esperienze e amore per l’ambiente, la natura, il paesaggio, la convivialità, che la caccia incarna e che ognuno di noi in varia misura possiede. Ma che troppo spesso condivide solo all'interno della nostra cerchia.
Usiamo i social, che sembrano aver preso il posto di circoli, bar e armerie, ma allarghiamo la platea. Entriamo in gruppi anche estranei alla caccia. Non con polemiche, ma in modo propositivo. È importante spiegare a chi lo ignora - ai vicini, ai colleghi di lavoro, ai compagni di scuola dei nostri figli o alle amiche di mogli e fidanzate - quanta energia mettiamo nel coltivare un'attività, una passione profonda, che segna in molti aspetti la nostra vita quotidiana, le nostre scelte, il nostro rapportarsi con gli altri. Orgogliosi per quello che facciamo nell'interesse di tutti. Dimostrandolo col nostro comportamento corretto, responsabile, attento alla sicurezza nostra e altrui.
È la mancanza di conoscenza che ingenera nella società diffidenza e rifiuto nei confronti della caccia e dei cacciatori. Parlare, spiegare, confrontarsi – con chi ha l’intelligenza per farlo, sia chiaro - non è mai tempo perso. Un modo anche per tornare ad attrarre i giovani, un impegno che attraversa l'Europa. E allargare le fila delle donne, preziosissime nell’influenzare le opinioni familiari e nella società.
Dalla “filosofia” alla pratica. Tre cose sono a mio parere necessarie il prima possibile. La prima, sicuramente impegnativa, una riforma che porti a un nuovo quadro legislativo nazionale per superare le difficoltà di un settore che non è fatto solo di calendari venatori: la 157/92 è ormai inadeguata a fornire indirizzi e regole alla caccia, riconoscendone anche il valore sociale. Una nuova legge al passo con i tempi, con le mutate condizioni ambientali, di uso del suolo, di pratiche agricole, del corpo sociale dei cacciatori. Senza dimenticare una corretta interpretazione delle direttive, chiedendone l'aggiornamento, quando serve, non disgiunto da certe assurde disposizioni della legge sulle aree protette, gestita fino ad oggi quasi esclusivamente in chiave astrattamente protezionistica, in molti casi assurdamente anticaccia.
L’altra, recuperare con gli agricoltori il rapporto di fiducia che sembra essere venuto meno soprattutto sul problema delle specie invasive, ungulati, ma anche corvidi e storni. Un’alleanza utile per poter incidere sulla società e sulla politica.
Terza, ma altrettanto importante, se non di più: ripartire di nuovo con ancora maggior convinzione sulla strada dell’unità del mondo venatorio. Se continueremo ad essere divisi e litigiosi, il cammino sarà sempre più in salita.
Il futuro dipenderà da noi, dalla nostra capacità di essere protagonisti e credibili interlocutori, nel ruolo di gestori di un bene che è di tutti.