Fanno sorridere - se non incavolare - tutti questi appelli degli animalisti nostrani per la chiusura della caccia a causa degli incendi e della siccità. Dove per animalisti, ormai ci dobbiamo riferire oltre a LAC (Lega Anticaccia, serafica eterna perdente dai tempi dei referendum), LAV (Lega Antivivisezione, che riscuote tanti consensi in un paese, l'Italia, dove la vivisezione è proibita da tempo), l'ENPA (Ente Protezione Animali, fondato da Garibaldi che fu cacciatore appassionato fino ai suoi ultimi giorni), anche a WWF (fondato da cacciatori e retto ancora da cacciatori, tranne che in Italia), LIPU (Lega Italiana per la Protezione degli Uccelli, che negli ultimi deliri, derogando dalle proprie competenze ornitiche, ha preteso di mettere le ali anche a lupi ed orsi, attingendo da sempre ai fondi del Minambiente, ma che oggi pretende di continuare a sopravvivere grazie a una manica sorprendentemente larga del Ministero dell'Agricoltura).
Fanno sorridere e incavolare insieme, questi appelli, perchè si vorrebbe far credere agli italiani e a certi politici che si appalesano ignari, come le vicende atmosferiche di questi ultimi giorni stanno sconvolgendo gli equilibri ecologici e faunistici del Belpaese.
Intendiamoci, tutti noi, cacciatori in testa, siamo preoccupati per ciò che sta succedendo. L'incuria pubblica e privata nella gestione delle acque ci sta trovando impreparati di fronte ai fenomeni di tipo subtropicale che interessano la secolare finora tranquilla area mediterranea. Il passaggio di competenze fra Corpo Forestale e Vigili del Fuoco nella gestione delle velleità incendiarie molto spesso non disinteressate rischia un'altra volta dopo qualche decennio di far credere che fra i responsabili di questi eventi criminali ci siano anche i cacciatori. Il tempo ha dimostrato che allora il fenomeno non era così come lo volevano dipingere e oggi non ci vuole molto a smontare questo nuovo turpe disegno.
Precisato questo, è tuttavia importante rimettere all'attenzione di chi deve decidere - Ministro Galletti in testa che sembra abbia già pronto un decreto per accontentare i suddetti animalisti - che le cose non stanno affatto così, magari sommergendo di lettere, e-mail, telefonate e sollecitazioni dirette (pacifiche e civili, ovviamente) tutti coloro che possono contribuire a ristabilire la verità.
Proviamo a dare un piccolo contributo di chiarezza e di verità.
Gli incendi. Come tutti sanno, esiste da tempo una legge che proibisce la caccia per dieci anni nelle aree attraversate dal fuoco. Dove, in ogni caso, è comunque difficile che si possa trovare abbondanza di fauna selvatica per diversi anni dopo l'infausto evento. Si vorrebbe far credere, infatti, che gli incendi hanno distrutto enormi quantità di animali selvatici, soprattutto cacciabili, dimenticando che gli uccelli hanno le ali e i mammiferi le zampe e sanno benissimo come fare per allontanarsi celermente da situazioni pericolose. Ma a prescindere da questo, basta accedere alle statistiche dell'ex Corpo Forestale dello Stato (codificate anche dall'Istat, vedi:
Ambiente ed energia e
Pressione degli incendi sull'ambiente) per dimostrare - e farlo capire anche a uno stolto - che anche un fenomeno così eclatante, come quello degli incendi che hanno interessato quest'anno diverse zone del centro-sud e delle isole, poco possono incidere sulla consistenza complessiva della fauna selvatica che interessa la caccia.
Due dati: il picco massimo degli incendi nell'ultimo ventennio è stato registrato nel 2007 con 10.000 casi che hanno distrutto 227.000 ettari (130.000 ettari nel 2012). Una bella cifra, che tuttavia ha poca importanza (in termini assoluti) sulla SAU (Superficie Agricola Utilizzata) che corrisponde ancora oggi a più di dodici milioni di ettari (nel 1861 le foreste erano cinquemilioni e seicentomila ettari, oggi sono sei milioni e ottocentomila). Per cui, pure immaginando che quello del 2007 fosse il prezzo costante da pagare al fuoco, in dieci anni (tempo in cui si ipotizza il recupero del verde sul nero delle terre martoriate dagli incendi), la percentuale offesa sarebbe piccola parte rispetto al patrimonio totale di cui si dispone. E in ogni caso, fatto salvo il danno all'agricoltura e ai beni pubblici e privati, pochissimo andrebbe a pesare nei confronti della fauna selvatica che avrebbe - ed ha - la stragrande maggioranza del territorio a disposizione ove rifugiarsi.
E, tuttavia, non è questa la realtà. La media dell'ultimo ventennio corrisponde a meno di un quarto di quel picco massimo (sotto cioè i cinquantamila ettari l'anno; dal 1971 al 2001 la media annua è stata di 118.000 ettari), con tendenza a ridursi ancora in questi ultimi anni (dai trenta ai quarantamila ettari). L'allarme odierno, pur piuttosto grave, viene rilanciato dai media in termini sensazionalistici, non perchè non sia giusto richiamarlo all'attenzione dell'opinione pubblica, in quanto fenomeno criminoso, ma soprattutto per dare la stura a certe sofferenze, più di uomini che della natura, conseguenti al fatto che il Corpo Forestale è stato fatto confluire nell'Arma dei Carabinieri e le competenze sugli incendi sono state affidate ai Vigili del Fuoco, molto esperti nel combattere gli incendi (in città) - sembrano mormorare gli ex forestali, pubblici (e privati, come in Sicilia, per esempio) - ma poco adusi nella prevenzione, fiore all'occhiello delle giacche verdi. Per tornare ai dati: tenendo conto che il picco stagionale (le massime in luglio e agosto) sta per esaurirsi e, sicuramente, l'anno si chiuderà molto al di sotto delle due-tre preocupanti cifre massime documentate: a fine luglio, eravamo sotto ai cinquantamila ettari andati in fumo.
Insomma, una realtà certamente da esecrare, ma non certo sufficiente a fornire ai nostri governanti anche i più solerti elementi per avallare richieste e prendere decisioni che mai in passato furono prese, pur di fronte a situazioni ben più gravi. Senza contare, eh sì, senza contare che oggi i cacciatori e il conseguente paventato impatto sul patrimonio faunistico sono almeno dimezzati e che gli stessi soggiacciono a norme, le più restrittive d'Europa, che fra l'altro in venti anni hanno prodotto aree no-caccia su almeno il trenta per cento del territorio.
Per quanto riguarda la siccità, che il clima sia soggetto a sempre più evidenti cambiamenti, solo delle menti folli lo possono continuare a ignorare. E purtoppo ce ne abbiamo. Ma anche in questo caso, gli animali selvatici da sempre sanno cosa fare. E non sarà certo la caccia che ne determinerà l'eventuale consistenza.
Anche qui, i soliti depositari del verbo ambientalista-animalista all'amatriciana verrebbe tragicomicamente da dire (alcuni in contraddizione con se stessi) ci vorrebbero convincere che, come si diceva, gli uccelli non hanno le ali e i mammiferi non hanno le zampe. Mentre d'altronde - pur nella siccità aggravata da un superconsumo da parte dell'agricoltura e una colpevole negligenza della pubblica amministrazione - fiumi, torrenti, ruscelli e invasi esistono ancora e di acqua ve ne scorre e ne conservano, soprattutto nelle aree di maggior pregio bio-ambientale, che notoriamente sono escluse alla caccia. Ed è là che gli animali selvatici si approvvigionano di quel bene vitale, vitale anche per tutti noi, che purtoppo, anche in questo caso, rischia di mandare in crisi il sistema (economico e sociale, piuttosto che ambientale), sotto l'indifferenza proprio di coloro che in questo ultimo mezzo secolo avrebbero dovuto preoccuparsene. I quali - imperterriti - continuano bellamente a definirsi ambientalisti, amici della natura. Che spudorati!