Mentre il più letto scrittore vivente, sempre in testa con i suoi romanzi alle classifiche mondiali, il rodesiano Wilbur Smith, confessa – oggi - candidamente che da piccolo sognava di fare il cacciatore professionista, gli scribacchini de noaltri e la cosiddetta intellighenzia italica fanno a gara a smarcarsi, distinguersi, quando l'argomento scivola sull'assunto che una sana cultura popolare, le tradizioni - che giustamente, sono tutti d'accordo, stanno alla base del nostro essere uomini – non possono prescindere da quella che a nostro avviso è ancora parte dell'essenza stessa dell'odierno vivere civile. La caccia. Quando qualcuno la evoca, ne stigmatizzano gli aspetti efferati, gli effetti sul patrimonio naturale (inaccettabili, secondo loro), l'inattualità.
Da questo coro di inutili cornacchie, prive ormai di una benchè minima autonomia di giudizio, impegnate come sono a seguire le mode, a non apparire sgradite al potenziale lettore, a competere quanto a intelligenza e originalità al più paludato tronista e alla più cliccata velina, si ergono fortunatamente alcune personalità – poche purtroppo - che noncuranti dell'andazzo mercimonioso, dicono ancora quello che pensano. E lo scrivono pure!
L'altro giorno, a Longarone, birra alla mano, è apparso in forma smagliante lo scrittore-scultore-alpinista montanaro Mauro Corona. Principe della dissacrazione, picconatore delle odierne più bigotte convenzioni, maestro di provocazioni, che solo a un osservatore distratto appaiono superficiali, mentre nel profondo denotano ricchezza d'ingegno, intimità con la riflessione filosofica, frequentazione accanita di sopraffini reperti letterari.
Era lì per partecipare a un dibattito letterarvenatorio, dove – senza niente togliere agli altri numerosi scrittori (di genere?) e appassionati, che sono intervenuti anche con argute considerazioni – ha indubbiamente segnato una differenza macroscopicamente percepibile nelle sue rapide incursioni chirurgicamente definitive, negli affondi dissacratori, nei contrappunti caustici, nelle punzecchiature a volte provocatoriamente autocritiche. Ha fatto emergere verità assolute, che sono quelle che in effetti fanno la differenza fra letteratura (e letterati) di genere e letteratura (e letterati) senza aggettivi. Non per questione di argomenti, ovviamente, ma per faccende di contenuti.
Ha denunciato certe follie della società contemporanea. “A Erto – ha detto - rasa al suolo nella catastrofe del Vaiont, hanno costruito le case senza canna fumaria. Hanno pensato che disponendo dell'elettricità, del gas, del petrolio, la legna non serva più”. E invece, con un paradosso millenaristico, nel suo ultimo libro ha preconizzato un mondo all'improvviso senza petrolio. Un mondo che spiazzerebbe tutte le certezze di quelle moltitudini di nostri concittadini, che si ritroverebbero nudi e imbelli, senza possibilità di salvezza. E allora, ecco la grande provocazione, che calza a pennello con le vicende assurde di questi giorni, che hanno messo in croce un povero cristo di sindaco di un comune della montagna ligure. “Bisogna che nelle scuole – ha detto Corona – torni il contadino a insegnare il suo mestiere, che il cacciatore disveli i suoi segreti, che l'artigiano dispensi di nuovo la sua arte. Solo così si salveranno i nostri figli, da una natura che è ormai considerata nemica.” Tornare alle origini, insomma. Che poi non è cosa tanto lontana nel tempo. Nelle sue montagne, lui fanciullo e giovanotto, addestrato alle fatiche della vita e delle vette, la natura “era amica”. Detto con toni apocalittici. “Oggi – ha ironizzato – a Belluno, se c'è la neve chiamano i pompieri! Nessuno è più in grado di conviverci.”
In un mondo che tornasse di colpo a un secolo fa, anche quelli della Lipu farebbero a gara a mangiare gli uccellini. Ossi e becco compreso. Perchè – questa è la verità – checchè se ne dica, “la gente non vuole morire. Quando si trova a malpartito, elimina le convenzioni. Se ha freddo brucia anche il tavolino e mangia in piedi. Fa fuori tutto quello che non serve. Si accorge che se hai fame, del superfluo puoi fare a meno. Viviamo in case enormi. Una casa a dimensione umana è quella dove puoi raggiungere quel che ti occorre, senza spostarti dalla sedia.”
E i cacciatori? E la caccia? Peccato che venga così bistrattata. E' vita! E' voluttà. Ha segnato la sua vita, in montagna, fra camosci e forcelli. “Difficile – dice senza ipocrisie – quando ero ragazzo senza esperienza, fermarsi di fronte a un camoscio, anche se avevi già fatto il tuo.” Lo imparò, in tre a caccia, lui suo padre e un compagno di battute, con un camoscio per uno già all'attivo, quando non resse alla tentazione di sparare al secondo. Il padre – inflessibile – l'obbligò a portarne due, costringendolo a fare la spola fra una croda e l'altra, sfinito dalla fatica e sempre più consapevole della sciocchezza che aveva commesso. “Ma di fronte a una decina di forcelli al canto, era difficile fermarsi, era difficile...”, confessa, nel tentativo di insegnare che oggi, se c'è qualcuno da proteggere, questo è l'uomo, che dissociato sempre più da un'esistenza in stretta sintonia con la natura, rischia di pagare per tutte le scelte scellerate che ha maturato in questa dissennata corsa a circondarsi di cose che perlopiù non servono.
Predicatore eretico, in un tempo e in un luogo in cui fortunatamente non mandano più né al patibolo né al rogo, questo montanaro che rifiuta la modernità, questo scalpellino che anima la pietra della sua ribellione folle, attinta a piene mani dai suoi Dostojevsky, Tolstoi, Cervantes, e che tutti noi vorremmo avere il coraggio di professare, birra alla mano, come un'invettiva lancia una promessa: nel suo prossimo libro racconterà la caccia, nella sua essenza, umana e esistenziale. Salvifica, naturalmente.
Anche per scongiurare la fine del mondo “storto”.
Ne leggeremo delle belle.
P. Ermini |