Gabbiani che planano sui panini dei turisti (Trieste), cornacchie che si scagliano sui passanti, piccioni che invadono di guano marciapiedi e monumenti; storni che oscurano il cielo e strepitano superando di gran lunga il rumore del traffico, sono scene ormai ordinarie nel nostro paese.
Gli “uccellacci” di casa nostra, che un tempo ricoprivano il loro ruolo marginale nella schiera delle decine, centinaia di specie che popolavano le nostre campagne, spostandosi in città, mano a mano diventano più numerosi, scaltri e agguerriti. Si trasformano in predatori e fanno razzie di uova e piccoli uccellini. Sono riusciti ad averla vinta, nonostante campagne di sterilizzazione (per i piccioni), strumenti di dissuasione, contenimenti e deroghe alla legge sulla caccia. Hanno cambiato presto le loro abitudini, talvolta hanno smesso di migrare, e si sono adattati al sudiciume delle città, dove campano a meraviglia tra un tozzo di pane buttato per terra e un cassonetto da perlustrare. A Roma, la capitale, cronaca di questi giorni, in competizione con i ratti.
Paradossalmente la cementificazione selvaggia ha agevolato queste specie, mentre ha indebolito sempre di più quelle tipiche di campagna. Insieme alle tonnellate di veleni, usati per un'agricoltura sempre più volta a una redditività mordi e fuggi, l'urbanizzazione è una delle cause di una progressiva defezione nei nostri cieli di molti passeriformi che popolavano lo stivale.
Se da un lato si è deciso di proteggere gli habitat dei migratori tramite l'istituzione di un numero sempre maggiore di oasi protette e Zps, e purtroppo per noi riducendo ignobilmente l'elenco delle specie cacciabili, tanto per additare un colpevole (noi), al pubblico ludibrio, dall'altra non si è fatto nulla per mettere a sistema un livello di protezione davvero efficace ed equilibrato, che tutelasse a macchia d'olio anche gli abitanti alati delle campagne. Qualcosa, insomma, che non si limitasse a massacrare i cacciatori (che, noi lo sappiamo, non incidono sulle consistenze delle specie) ma che mirasse a a garantire le condizioni per la vita e la sosta dei volatili in tutto il territorio agro-silvo pastorale, utilizzando per esempio colture a perdere, mantenendo salubri i terreni, proteggendo la biodiversità insettivora, mantenendo le siepi e curando la manutenzione delle zone umide. Come non bastasse il fattore cambiamenti climatici sta diventando sempre più pressante per la vita avicola, non solo spostando l'inizio e la fine delle migrazioni, ma determinando condizioni difficili per la riproduzione e la nidificazione.
Partiamo da un dato di fatto. L'habitat abituale di molte (per non dire tutte) specie nidificanti in sofferenza, sono proprio i campi coltivati. Dalle informazioni raccolte dall'European Bird Census Council, che stima le evoluzioni delle specie avicole europee a partire dai vari progetti di monitoraggio sul territorio (citate su Il Cacciatore Italiano da Michele Sorrenti), emerge che sono proprio queste specie in particolare ad essere in declino. Gli uccelli italiani infatti sono diminuiti nelle aree agricole (del 18,1% dal 2000 al 2014), ma aumentati considerevolmente negli habitat forestali (del 21,49%).
Il passero d'Italia, per esempio, è in picchiata verso il declino. La sua diminuzione in soli quindici anni arriva a toccare il tetto del 55 per cento. Abbiamo perso più della metà dei passeri che si contavano solo una manciata di anni fa! E senza che nemmeno un cacciatore abbia sparato un colpo! Stessa sorte sta toccando alla rondine. Se bastasse la caccia a fare la differenza, non si spiegherebbe l'ottimo stato di salute di cui gode il tordo bottaccio. Pur essendo cacciato in tutta Europa, il suo numero continua a crescere (addirittura quasi del 70%).
Una gran fetta di responsabilità della poca attenzione dei nostri politici su questi temi ce l'hanno gli ambientalisti. Un vero movimento interessato alla difesa e all'educazione ambientale proprio non c'è. Mentre Wwf, Lipu, Lav ed Enpa (per citare le associazioni più grandi), sprecano tempo e risorse nel chiedere finanziamenti pubblici, pretendere spiagge per i cani, fare ricorsi contro il contenimento di specie considerate invasive e distruttive, l'Italia a mano a mano perde pezzi di ruralità. La caccia ha fatto per troppo tempo da capro espiatorio alla loro inadeguatezza. E' tempo di reagire, non vi pare?
Perchè dovremmo assistere inermi a quest'altalena che vede - altri esempi - ulteriori aumenti consistenti di oche selvatiche e di colombacci, due specie intensamente cacciate in tutta Europa (ma per l'oca in Italia non se ne parla nemmeno) e cali inspiegabili per specie soprattutto insettivore, da sempre escluse dal prelievo venatorio? Perchè dovremmo occuparci solamente di specie in elenco in calendario, e trascurare quell'ipotetico forapaglie boscarino (specie di fantasia) che nel tempo ha drenato fondi e tempo di persone, sedicenti scienziati, pagati da pantalone, cioè anche e in alcuni casi soprattutto dai cacciatori?
Come dice il mitico Marzullo, fatevi una domanda e datevi una risposta. Noi ce la siamo già data.
Cinzia Funcis