Fra i tanti fatti di questi giorni che hanno affollato le cronache della caccia, spiccano a livello nazionale i numerosi e a volte faziosi interventi sull'esagerato fenomeno dell'emergenza cinghiale.
Che in questi ultimi vent'anni la popolazione di questo irsuto porcastro sia aumentata, non c'è ombra di dubbio. Che l'ambiente a lui congeniale abbia avuto un altrettanto consistente incremento lo possono verificare tutti. L'Appennino da nord a sud si è spopolato, lasciando ampia libertà all'incalzare della macchia. Che i suoi antagonisti, escluso il lupo e compresi i cacciatori, siano diminuiti, anche su questo non c'è dubbio. Che qualche danno alle produzioni agricole lo facciano, con alti e bassi a seconda dell'annata, e che gli incidenti stradali per loro causa siano più frequenti, è pure assodato. Però, tra il tanto allarmisticamente rappresentato e il quanto realmente verificabile, sono ormai in diversi che cominciano a sostenere un innaturale divario. Qualcuno, addirittura, prova a infilare nella discussione un nuovo e più subdolo elemento, analogo a quello che a suo tempo, venti-quaranta anni fa inventarono per privatizzare la caccia, strumento e complice l'ambientalismo nostrano. Basta rileggersi i testi delle numerose richieste di referendum per capire che non era la caccia che si voleva abolire, ma l'art. 842 del C.C. che si voleva abrogare. Su questo poi si continuano a versare fiumi d'inchiostro da parte di chi la vuole cotta e di chi la vuole cruda, anche fra i cacciatori.
Il dubbio viene, oggi, soprattutto se nell'analizzare i contenuti del dibattito, fra gli addetti ai lavori, in Parlamento e nel Paese, si assiste a una singolare polarizzazione: da una parte si dà come al solito la colpa alla caccia; dall'altra si fa finta che il problema non dipenda dalla storicamente errata politica ambientale, anzi più ambientalista che ambientale. Per sommi capi: parchi e aree protette diventati stipendifici e prebende per dirigenti dei diversi e articolati movimenti ambientalisti e animalisti. "Affaires" scaduti spesso in un magna-magna tra i più turpi (gli esempi virtuosi sono piuttosto rari). Quando, al massimo, si può valutare l'inadeguatezza dell'approccio, sia da una parte sia dall'altra.
In questi giorni, per esempio, ha fatto la sua apparizione il testo di un rapporto (“Danni da cinghiale (Sus scrofa). Gestire la specie per contenere significativamente i danni”) presentato al colto e all'inclita dalla "famigerata" (almeno agli occhi di parte del mondo dei cacciatori) Legambiente, che cerca a suo modo di dire la sua in maniera sistematica, distinguendosi tuttavia dalle altre consorterie animalare (WWF, Lipu, LAC, LAV).
Qualche contraddizione: in molte aree del paese (dove il cinghiale - valutato in un milione di capi - storicamente non c'era; esempio nelle piccole isole, ma non solo) questo ingombrante soggetto crea pesanti impatti su ecosistemi e ingenti danni alle colture, per cui - si legge sul rapporto - andrebbe estirpato, ma costituisce tuttavia un'ottima fonte alimentare per il lupo, apparso di nuovo ovunque (1500 unità in tutto il paese, ma la stima appare a molti piuttosto datata e valutata comunque per difetto), grazie appunto anche alla sua presenza.
Strumentale invece ignorare o addirittura negare da parte di Legambiente tre delle cause principali delle eventuali anomalie denunciate in alcune aree del paese. La prima: è falso, dice Legambiente, sostenere che il divieto di caccia nelle aree protette impedisce di ridurne i contingenti, in quanto nelle aree protette italiane la norma consente di svolgere regolarmente il controllo della fauna selvatica, cinghiale compreso, e diversi parchi hanno ampiamente dimostrato che ciò si può fare e con successo. Peccato che non se ne sia accorto nessuno, visto che le scorrerie nelle aree a coltura da là hanno origine, dalle aree protette, come dimostrano ampie ricerche di zoologi e di specialisti. La seconda: non è vero, secondo Legambiente, che gli eccessivi limiti imposti all’attività di caccia non consentono di regolare popolazioni di cinghiale, in quanto i principali danni vengono arrecati e sono registrati nelle aree in cui si esercita la caccia (attività con finalità ludica) e negli ultimi anni la caccia al cinghiale ha visto un’enorme crescita in termini numerici di partecipanti, anche se con differenze nelle diverse aree del Paese. Affermazione in gran parte priva di fondamento, che scade a volte nel ridicolo, dal momento che nelle aree di caccia il cinghiale è tenuto sotto controllo, mentre l'indice demografico sale nelle aree protette, tant'è vero che là - nelle aree protette - si spendono enormi capitali per tenerlo sotto controllo. Mentre è sotto gli occhi di tutti che negli ultimi vent'anni la "popolazione" dei cacciatori è diminuita di oltre il 50%, e invecchiata, tanto che, ormai, anche nei territori ad antica tradizione cinghialaia si deve ridurre il limite minimo di componenti delle squadre, perché altrimenti non si sarebbe in grado di praticare la caccia, non disponendo più di sufficiente "materia prima". Che peraltro deperisce e invecchia. Terzo, dimostrazione lapalissiana, che a quadro normativo vigente, una corretta gestione della specie è possibile e consente di ridurre significativamente i danni da cinghiale, affermazione che tuttavia rimane sul generico, perché volendo approfondire si scoprirebbe che laddove funziona, l'intervento dei cacciatori è determinante.
E qui, però, Legambiente cerca di deviare ideologicamente sul metodo (di caccia): nelle zone dove ridurre le presenze del cinghiale la braccata funziona male, mentre col metodo della selezione il problema si risolve meglio. Boh! Evidentemente stanno raccontando un altro film. Quasi fiction pura.
Diversa considerazione sull'articolazione dei distinti approcci d'intervento, legati alla responsabilizzazione dei soggetti in causa, soprattutto agricoltori e cacciatori, e in parte già in essere nelle aree dove il fenomeno è più sentito, ad esempio in Toscana, dove tuttavia per ora si pecca di...faziosità. Spesso si parte dal danno, mentre sarebbe più logico partire dalla causa. Se, per esempio, in un'area il cinghiale non ci deve stare, lì, scusate il lapalissiano assunto, il cinghiale va tolto e non c'è bisogno di interventi "chirurgici". Dove la causa è l'esagerata consistenza della popolazione, non c'è neanche lì bisogno di interventi "chirurgici", almeno in prima, seconda e terza battuta, che se vogliamo potranno essere adottati dopo, a equilibrio ricostituito. Con la chirurgia, cari miei, abbiamo visto che il problema, quando è grave, non si risolve. Costa tempo, troppo, e denaro, che non c'è. E non può essere impiegato nemmeno per molte delle diverse forme di prevenzione suggerite: recinzioni, dissuasori, catture, sterilizzazione (?!).
La soluzione? O, meglio, le soluzioni? Difficile valutarle nella loro pur articolata enunciazione. Vanno applicate, caso per caso. Resta il fatto, positivo, che leggendo la lunga esposizione, non si può non considerare che almeno qualcuno si è applicato con diligenza sul problema e che, il problema, non è stato liquidato con stantie sicumere populiste. Vi si ritrovano infatti ampiamente le diverse posizioni che anche nel variegato mondo venatorio nostrano si discutono e si portano ad esempio. Spesso più nei bar e nelle armerie, piuttosto che ai tavoli di governo del territorio.
E poi, ricordiamocelo, non si può affrontare il problema cinghiale, o ungulati in sé, senza contestualizzarlo in una più vasta argomentazione a tutto tondo. La caccia, ancora, e fortunatamente, la nostra caccia, non è solo questa. La stragrande maggioranza dei cacciatori la pratica soprattutto sotto altre forme. Alla migratoria, e alla piccola stanziale. E non è possibile trasformare una cultura di popolo, dalle caratteristiche eminentemente mediterranee, tenendo a riferimento certi modelli mitteleuropei. Occorre fare sintesi. E fino a che si consentirà di demonizzare una vasta schiera di praticanti, pretendendo poi che gli stessi contribuiscano alla soluzione di problemi che di sicuro, da soli, non li hanno provocati, i problemi resteranno, e forse diventeranno sempre più acuti.
Ma non mancherà, purtroppo o fortunatamente, l'occasione di poterne riparlare.
Remo Barbera