Se non è possibile quantificare il rapporto affettivo-venatorio con il teatro delle nostre battute, è invece necessario calcolare economicamente l’apporto gestionale che i cacciatori danno volontariamente.
Penso sia un sogno comune a tutti i cacciatori italiani, quando si concluderà questo periodo terribile, di riprendere serenamente a praticare la propria passione, magari anche con qualche puntata fuori confine. Si confrontano così due pulsioni: una più locale e una più “globale”. Ciò ci porta ad affrontare una questione che non si trova frequente nei dibattiti venatori: la caccia è di per sé territoriale o ubiquitaria, cioè legata alle prede oggetto di caccia?
Se andiamo ad indagare rifacendoci a quanto succede in Natura, è imprescindibile riconoscere come la componente primordiale è molto presente nella passione venatoria. Dobbiamo riferirci al significato più consono dell’ambiente dove esercitiamo la nostra caccia. Il riferimento più appropriato è ai termini della biologia quali “habitat” e “territorio”. Tra i mammiferi predatori nostri competitori e con i quali possiamo in qualche modo confrontarci sotto il profilo biologico-comportamentale, siano essi specie sociali quali i lupi o individuali come la lince, tutti vivono e cacciano in un proprio territorio perfettamente conosciuto e difeso. Questo per evidenti e note ragioni di sopravvivenza, competizione ed equilibrio tra prede e predatori, così è almeno in ambiente naturale senza presenza umana. Anche in sociologia ed etnografia il termine territorio assume uno specifico significato identitario che va oltre l’aspetto naturale: landscape il termine inglese e landschaft in tedesco (questi temi sono esaurientemente definiti da Annibale Salsa in “Paesaggi delle Alpi”, 2019 ). Anche analizzando altri fattori più consoni alla caccia, divenuta nel corso dei secoli da attività prettamente alimentare a prevalente attività ludico-sociale ed in questo ultimo scorcio di tempo ad attività prevalente indirizzata alla gestione faunistico-ambientale, ancora oggi sembrano prevalere le ragioni a sostegno del suo aspetto “territoriale” (aggettivo che esprime anche l’aspetto cognitivo e culturale di un ambiente geografico), come andremo di seguito ad esporre.
La caccia, anche al di là degli obiettivi e delle ragioni che la supportano, è per il singolo cacciatore grande fonte di emozioni e di gioia che travalicano il momento riduttivo e limitato della cattura della preda (sempre più ristrette se non uniche nella stagione venatoria). La caccia è nella gran parte immaginazione e aspettativa: di avvistamenti, di incontri che hanno la necessità di ambientazione e trovano concretezza in posti a noi noti e ritenuti confacenti alla selvaggina che intendiamo cacciare. Ecco quindi la possibile corrispondenza al termine usato in biologia sopra richiamato di “habitat”, l’ambiente dove ognuno “vive” la propria attività venatoria.
Solo “quel” posto (ora e luce costruiscono la scenografia appropriata) ci acuisce i sensi e l’adrenalina entra in circolo, in attesa di un frullo, un verso, un ombra, ma anche il solo spaziare su ambienti e orizzonti appaganti è fonte di serenità. Cacciare in posti sconosciuti annulla o mortifica l’aspettativa rendendola inconsistente, e la stessa azione venatoria ne risulta sminuita.
Alcuni esempi: cos’è cacciare la beccaccia senza conoscere l’angolo di bosco idoneo, la possibile rimessa? O la lepre col segugio, se non si può ipotizzare il covo, la pastura e il rientro? La caccia al cervo e al capriolo se non si conoscono del bosco tutte le aree dove bazzicano gli animali nel corso del giorno e delle stagioni? E pure per il camoscio, una caccia in aree aperte dove la vista spazia, ci si deve affidare all’accompagnatore che è spesso il protagonista vero della caccia. Anche le cacce in braccata in un territorio ignoto son prive di aspettative, spesso piene di noiose attese, rispetto ai luoghi dove sono note valli, trottoi, rimesse, dove almeno l’immaginazione, come un drone, segue la canizza.
Ma oltre a questo aspetto intimo ma sostanziale della gratificazione che genera la caccia, esistono fattori esterni che definiscono la caccia. Esaminiamo altri due aspetti, uno diretto e l’altro indiretto, che condizionano la caccia nel nostro Paese e contribuiscono a determinare la caccia attuale come prevalentemente legata ad un ambito territoriale (concetto diverso dal “territorio” sopra definito).
La situazione normativa e l’economia legata all’attività venatoria sono due fattori che diversificano l’Italia rispetto agli altri Paesi europei. In quasi tutte le nazioni il diritto di caccia è connesso alla proprietà, e la caccia è collegata ad un’importante economia che, a sua volta, è interdipendente col settore ambientale. Viceversa, la prevalente tradizione venatoria di caccia all’avifauna migratoria che ha contraddistinto in passato la caccia nazionale non ha certamente promosso una cultura territoriale della caccia e della fauna stanziale, che si basa sul principio della salvaguardia degli habitat, della conoscenza dei contingenti faunistici presenti e sul calcolo dei possibili prelievi. La legge venatoria nazionale risalente al secolo scorso (è di tutta evidenza l’anzianità!) aveva abbozzato, più che il principio della territorialità, una limitazione della mobilità dei cacciatori all’interno di ambiti incompatibili con conoscenza del territorio e gestione faunistica ed ambientale, delegando alle Regioni modalità e regole le più disparate. Il nodo dell’economia non è stato affrontato, se non stabilendo la tassa nazionale della licenza e fissando il limite massimo per la tassa regionale sulla base di un demagogico principio egualitario, che non trova corrispondenza nella caccia estremamente diversa per ambienti e risorse faunistiche da comune a comune. Si tratta di una tematica che viene scarsamente discussa, fatta salva qualche ricerca del settore armiero (in una ricerca dell’Università di Urbino si indica in 7 miliardi e 300 milioni l’ammontare del settore tra diretto e indotto).
Passando all’aspetto indiretto, non viene quantificata né considerata l’enorme mole di lavoro svolta dai cacciatori come “volontariato” (in realtà anche “obbligatorio” per poter accedere agli abbattimenti). In tal senso, opportunamente, è intervenuta la Federcaccia con la presentazione del Bilancio sociale (n.1/2021, pag. 12) che colma questa lacuna. Volendo presentare qualche esempio, eclatante sarebbe il confronto tra i costi relativi alla gestione di un area vincolata a Parco la verifica della ricchezza ed equilibrio faunistico rispetto al costo che si avrebbe con una caccia gestita con l’apporto anche ambientale dei cacciatori!
È auspicabile che, su iniziativa dei cacciatori, venga affrontato questo tema importante per poter dimensionare in sede politica il ruolo dei cacciatori nella gestione ambientale e trovare le giuste risorse economiche anche all’interno dell’attività venatoria (avviene già in alcune regioni, dove i costi sono proporzionati alla qualità dell’ambiente e alla fauna presente), come la legge prevede per le Aziende faunistico-venatorie e agrituristico-venatorie, che verrebbero destinate all’ambiente. Sarà un percorso in salita, ma è l’unica via percorribile per un mondo venatorio decrescente.
Nessuno può ragionevolmente ipotizzare di erigere barriere e definire spazi artificiosi per chiudervi i cacciatori, ma dovranno essere i cacciatori stessi che fanno propri gli ambienti che frequentano, elevandoli con un passaggio e una elaborazione culturale (come è in essere da anni per alcune zone alpine) a “territori”, e coniugando wilderness e gestione tecnica. Un riferimento è il documento della “Convenzione europea del Paesaggio” (2001, Firenze). Di questi spazi assunti a “territori” ne assumeranno responsabilità, cura e custodia; negli stessi può trovare legittimità e appagamento intimo la caccia, ma anche trovare concretizzazione la condivisione sociale di utilizzo e conservazione del ambiente e della fauna come patrimonio collettivo. Negli ultimi decenni, nonostante il travagliato iter amministrativo dei territori alpini e della caccia senza una regia unica, i cacciatori hanno supportato spesso, sostituendosi alle strutture istituzionali, la nuova visione della caccia che si pone come obiettivo la conservazione della biodiversità e di popolazioni faunistiche in equilibrio con il paesaggio umano in costante e rapida evoluzione (o involuzione), opponendosi ad una predominante moda di un ambientalismo ottuso, che pone come obiettivo l’intangibilità dell’ambiente.
Questo nuovo approccio potrebbe essere un’ipotesi per una prospettiva “venatoria” di una tanto declamata e promessa green economy.
* Per gentile concessione de Il Cacciatore Italiano
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