Gli spazi diminuiscono e la popolazione aumenta, eppure ci sentiamo sempre più isolati. Tra il traffico delle nostre città, i ritmi sempre più veloci, le porte sempre chiuse di condomini tutti uguali e sempre più piccoli, le persone trovano sempre meno il tempo e il modo di incontrarsi, di raccontarsi e confrontarsi.
Sono finiti ormai i tempi delle chiacchierate intorno al focolare di casa, i tempi in cui i bambini giocavano insieme nelle aie delle vecchie corti di campagna. I bambini di oggi (che saranno politici, dottori, scienziati, architetti e pensatori di domani), o la maggior parte di loro, non hanno nemmeno più bisogno di stare insieme per tirare due calci al pallone. Per questo ci sono i videogiochi, sempre più perfezionati, in grado di emulare la realtà e di crearne altre perfette. Ci sono poi le merendine confezionate che hanno sempre lo stesso sapore e ci sono genitori e nonni che sempre meno ne sanno di natura e di vita di comunità, tanto meno della sana vecchia bella vita di campagna, sacrificata nelle loro esistenze all'esplosione del cemento e della produttività.
Rinchiusi nei rispettivi appartamenti, nessuno si accorge più degli altri e spesso non sappiamo nemmeno chi sono i nostri vicini di casa. Le cronache locali riportano di frequente piccoli grandi drammi legati alla solitudine. Poche settimane fa da quel di Prato abbiamo saputo increduli del ritrovamento di una ragazza, che si è lasciata morire, a 25 anni, perchè troppo sola. Ha semplicemente smesso di nutrirsi e nessuno se n'è accorto. Come spesso succede in questi casi, il corpo è stato ritrovato per caso, addirittura dopo alcuni mesi dalla morte, nessuno l'aveva cercata. Non è che uno dei tanti casi, su cui ci si interroga, per uno o due minuti quando i media ne parlano. Spesso protagonisti di queste notizie sono gli anziani, che vengono abbandonati a loro stessi quando sono solo un peso, proprio come tanta gente fa ormai, in estate, con i cani che sono un’impiccio per le vacanze. E la cosa triste è che questo problema, quello della solitudine, come ogni tabù che si rispetti, ha paradossalmente meno risonanza in confronto a quello degli amici a quattro zampe, che invece sono ogni anno al centro di infiniti appelli al buonsenso (così come la nuovissima campagna Animal Friendly del Ministero del Turismo).
Ma la solitudine coinvolge tutti, è un fatto ormai patologico della società post industriale. Ci sentiamo numeri, macchine e piccoli ingranaggi ogni giorno, quando ci rechiamo da medici che non conoscono il nostro nome, quando lavoriamo in fabbriche, cantieri o uffici di enormi multinazionali, capaci di venderci al peggior offerente in ogni momento e senza battere ciglio. L'uomo di oggi, svuotato di senso e privato della sua individualità, si lascia consolare dall'ultimo modello di telefonino sul mercato o da falsi idoli propinati dalla tv e colma il grande vuoto che sente riempiendo i carrelli dei supermercati. Se poi gli affetti più stretti mancano, ecco che entrano in gioco gli animali, su cui, loro malgrado, si riversano le nevrosi di milioni di depressi.
L'inesorabile aumento di cani, gatti, conigli e criceti nelle case degli italiani è, in parte, un chiaro sintomo di questa sofferenza. Ognuno di noi ha conosciuto anziane signore sole capaci di parlare per ore (col e) del proprio animale o ha provato un moto di umana compassione nei confronti della dedizione con cui le cosiddette “gattare” si occupano di felini abbandonati (capaci per altro di gestirsi da soli per natura); o ancora sarà capitato di rimanere atterriti di fronte ad alcune attenzioni eccessive imposte agli animali, talvolta vestiti e pettinati come dei pargoli di buona famiglia. Tutti impettiti e inamidati, con cravattino e brillantina. Questo istinto di protezione (più forte in persone che non hanno avuto figli o altri affetti) è una delle tante risposte alla solitudine creata da una società che compensa il disinteresse per l'essere umano con un esagerato affetto per gli animali e con la conseguente volontà di scrivere sulla carta che a loro spettano gli stessi diritti degli uomini.
Il fatto stesso che chi parla di coscienza animale la consideri alla stessa stregua di quella umana, stravolgendone il senso stesso della specifica - termine guarda caso che ha la sua radice in “specie” - natura, la dice lunga sul tentativo di rapportarli il più possibile a noi. Che la natura abbia dato a tutti i mammiferi un particolare attaccamento alla propria prole e talvolta al proprio partner (così da favorire la crescita e la protezione della progenie), è un mero fatto biologico che non deve e non può essere un parametro esclusivo. Il fatto che un pitone non provi sentimenti lo rende meno dignitoso? O meno tutelabile?
Quando una società si lascia andare a certe irrazionalità, è segno che per strada si sta perdendo qualcosa di importante e che stia annaspando senza sapere dove intende andare a parare.
Tutti noi, chi più chi meno, siamo disposti a prenderci cura di un animale, di affezionarci e di considerarlo parte della nostra famiglia. Ma dare una precisa dimensione a questi affetti è un fatto di identità, a cui il genere umano non può sottrarsi, questa si che sarebbe una grande conquista civile del nostro tempo.
Un cacciatore, per esempio, non frequenterebbe i salotti newyorkesi con un roseo porcellino al guinzaglio, come invece fanno certe dive del cinema e della televisione. Un cacciatore conosce il valore del paradosso di Singer, capofila della più rigorosa corrente filosofica animalista. Ovvero che il maiale, per il tempo che vive e per la infinita quantità delle sue “popolazioni”, deve.…”ringraziare il prosciutto”. Chissà se la Brambilla, che recentemente ha adottato un cinghialino, arriverà mai a capirlo.
Cinzia Funcis