C’è poco da scherzare. Tranne rarissime eccezioni, in Italia chi ama la caccia con il cane da ferma può contare su di un unico selvatico ancora degno di tal nome: la beccaccia. Sì, certamente esistono ancora ottime zone da beccaccini, come pure aree particolarmente vocate per il transito, la sosta e il ricasco delle quaglie; ma con la scomparsa dell’agricoltura tradizionale e l’abbandono delle campagne, tutto ciò che si salva – e che anzi cresce ogni anno – è il bosco, la macchia, gli spini. E la beccaccia proprio lì ama dimorare. Inutile parlare, poi, della selvaggina da penna stanziale: velo pietoso su starne e fagiani allevati e liberati (nella maggioranza dei casi) per ingrassare volpi a due e quattro zampe, nella speranza che almeno qualche pollo giunga fino all’apertura per essere infine recuperato da questo o quel fucile. Gli unici pennuti davvero selvatici che ancora l’Italia ospita sulle proprie montagne, a parte forcelli e bianche, sono le coturnici, ormai rarefatte anche nei parchi, vittime sacrificali sull’altare del protezionismo all’italiana, cioè senza gestione, che poggia sull’assioma “proteggere uguale abbandonare, chiudere alla caccia e basta”, senza favorire in alcun modo la biodiversità.
Ma lasciamo perdere parchi, politica e politica venatoria. Oggi si parla di beccaccia, patrimonio del Mondo ancor prima che dell’umanità; selvatico libero, impossibile da catturare e allevare e, proprio per questo, vero fino in fondo. Sempre diversa eppur sempre uguale, la beccaccia è l’unica preda del cacciatore cinofilo italiano capace ancora di stuzzicarlo nei sogni, di tenerlo alzato fino a tardi, di svegliarlo ben prima del sorgere del sole e, soprattutto, di provocare in lui quel brivido che non si può descrivere, quel sussulto nell’anima che si prova soltanto dinanzi alle grandi emozioni. Quasi infantile, questa sensazione: paragonabile più al primo bacio che alla prima donna vera. Ma soprattutto, mai come per la beccaccia vale il detto, che qui trova conio, di “Paese che vai, beccacce che trovi”.
Chi, infatti, è talmente arso dal fuoco della passione per la Regina al punto di farle la corte fino all’ultimo giorno utile, inseguendola lungo tutto il Paese – se non oltre –, è ben consapevole del fatto che lo stesso selvatico, cacciato in zone, in periodi e a latitudini diverse, è in grado di adottare strategie e comportamenti talmente differenti fra loro da costringere cani e cacciatori a modificare costantemente i propri, pena la certezza di tornare a casa a mani vuote.
Come non pensare, ad esempio, alle dolci Regine in faggeta, d’attacco: primi frutti d’ottobre, bambole mansuete ma che non danno una seconda chance il giorno dopo, nel caso in cui le si lasci andare assolte. Paragonarle alle streghe di gennaio, saette nevrotiche in mezzo ai lecci più fitti, è come parlare di altre specie animali. Eppure è lo stesso selvatico, forgiato dal freddo, dalla fame e dal piombo sentito fischiare. Tra questi due estremi si trova una miriade di casi, ambienti, beccacce: non vi è che l’imbarazzo della scelta e, ovviamente, la voglia di camminare.
C’è la beccaccia malleabile di entratura, ma che per un caso strano decide di sostare al di sotto della linea dei faggi, tra i carpini, con la stagione ancora agli inizi e le foglie tutte bene attaccate alle piante: semplicemente impossibile spararle, ma al contempo vera e propria nave-scuola per le giovani leve a quattro zampe. E se le pinete ricche di sottobosco, non lontano dagli Appennini, saranno la palestra ideale durante le prime gelate, con beccacce di passo che terranno la ferma “perdonando” ai cani qualche errore veniale, è sulle macchie rade di alto fusto della Sila che si compie il gesto cinofilo più esaltante, almeno per l’occhio, con i cani costretti a prendere le beccacce lunghissime, decine e decine di metri, per dare al cacciatore una ragionevole possibilità di tirare una fucilata a distanza utile.
Una prestazione, quella richiesta agli ausiliari sulla Sila, paragonabile soltanto al lavoro degli stessi cani da ferma nei castagneti, per esempio nel Reatino: luoghi in cui un filo d’erba è spesso l’unico nascondiglio utile per la Regina, leggerissima, quasi intrattabile. Ed è proprio quel “quasi” a distinguere un cane che ferma le beccacce da un cane beccacciaio. C’è poi la macchia mediterranea del Gargano, ring di massimo livello per cani di tutto rispetto, laureati in cerca del Master pronti a cimentarsi con guidate interminabili, uste a intermittenza e prove che richiedono grandissimo equilibrio olfattivo e mentale. Impossibile, poi, non citare gli sporchi, le selve, ma anche le pinete scogliose della Sicilia, i mirti e le ginestre in Sardegna, le macchie infinite e umide del Potentino, gli anfratti scoscesi del Tifernate o del Mugello, gli spini della Tolfa e i fossi del Viterbese, come pure i boschi del sud della Calabria, ancora oggi misteriosi, non lontani dall’Aspromonte.
C’è poi chi caccia la beccaccia con profitto nelle paludi (beato lui!) o in quel che ne resta, ultime superstiti delle campagne di bonifica portate avanti nel secolo scorso. Dato che la maggior parte di questi luoghi è al giorno d’oggi preclusa alla caccia, ci asterremo dal citarne i nomi sottolineando tuttavia come l’odore della beccaccia, e con esso il suo reperimento, cambino a seconda del clima e dell’alimentazione, che – com’è facile immaginare – variano profondamente rispetto alle zone di pascolo bovino, in genere oltre i 1000 metri, con vento costante per gran parte della giornata.
Ovvio che, come per i comportamenti della Regina a seconda degli habitat nei quali la si insidia, anche per l’alimentazione e l’olfattazione tra gli estremi del pascolo d’altura e la zona umida esiste tutta una scala di valori intermedi, che contribuiscono a rendere ancor più varia ed interessante questa disciplina dell’arte venatoria. L’umidità, le condizioni atmosferiche, l’esperienza individuale di ogni singolo selvatico - che può avere o non avere ancora avuto precedenti incontri con cani e cacciatori -, il tipo di alimentazione, la sua quantità e qualità, sono tutti fattori che cambiano le carte in tavola, trasformando ingenue debuttanti in smaliziate matrone, streghe di macchia pronte a metterla nel sacco anche ai più esperti conoscitori di zone, rimesse e comportamenti dello scolopacide. Ogni terreno, ogni vegetazione, ogni muffa ha un suo odore ben distinto che complica oltremodo il lavoro dei cani, impegnandoli in grattacapi sempre diversi fra loro eppure uguali nella loro soluzione: il reperimento e la ferma della Regina. Starà poi al cacciatore, al suo manico e alla sua fortuna, il saper capitalizzare o meno il preziosissimo lavoro del proprio ausiliare, premiandolo e premiandosi con il piacere di un abbattimento pulito e di un riporto in piena regola. Quest’ultima parte della recita, questa sì, rende la beccaccia sempre uguale in ogni posto in cui la si trovi.
Insomma: che sia tra i faggi in ottobre o nei fossi in gennaio, tra i lecci di dicembre o in pineta a novembre inoltrato, nelle isole o sulla terraferma, la beccaccia è sempre diversa e sempre uguale a se stessa. Un selvatico meraviglioso, unico, in grado da solo di tenere in piedi la cinofilia da ferma in Italia, ma soprattutto di rinnovare, ogni anno, il miracolo della migrazione, premiando quell’uomo e quel cane talmente folli da presentarsi puntuali all’appuntamento con i vizi e le diavolerie della Regina.
Daniele Ubaldi