Seppur con difficoltà, se dovessi fare la mia autobiografia mi descriverei con tre parole: Appassionata Cinofila Cacciatrice.
Infatti questo praticamente lo sono da sempre!
I miei ricordi risalgono a quando bambinetta seguivo mio padre per i boschi, aspettando un suo cenno che mi facesse, tra la sorpresa e il timore, battere forte il cuore davanti al frullo di una beccaccia. Ricordo le lunghe camminate e le salite non risparmiate che mi vedevano dietro ma mai ultima e il ritorno alla macchina con le guance rosse di chi pareva aver corso la maratona.
Un mazzolino di fiori per la mamma, una penna di una ghiandaia e una tascata di ghiande da portare all’indomani alla maestra. Queste erano le mie domeniche in autunno e inverno.
Seguivo mio padre come un’ombra, e come fanno tutti i bambini come una spugna assimilavo parole quali angolatura, rettangolo e quadrato, convergenza e divergenza, mantello, tartufo, groppa, ferma, riporto, seduto……pur non rendendomene conto era l’inizio dell’imprinting che oggi mi caratterizza.
Quella “passionaccia”, come la chiama mia mamma quando è arrabbiata, che ha preso anche me e non solo come diletto ma anche come attività professionale è diventata il mio stile di vita!
Mio padre mi ha insegnato a guardare il cane, sempre….. soprattutto durante l’azione di caccia la prima cosa era il cane: come si accostava, come guidava, come fermava e il riporto poi, dulcis in fundo un vero e proprio pot-pourri di emozioni!
Con mio marito poi il cerchio si è chiuso ed ora veramente mi sento completa!
L’avvicinamento alle esposizioni di bellezza è stata una conseguenza dovuta. Inizialmente con una femmina di Bolognese di nome Isotta, Giovane Promessa Enci nel 1999 e Campione Italiano di Bellezza nel 2001 e poi con i miei Bracchi Blu d’Auvergne.
Sono venuta a conoscenza di questa razza per caso sfogliando enciclopedie cinofile alla ricerca di un cane che mi potesse rappresentare, cane generoso, intraprendente, dal fiuto finissimo e dal grande senso del selvatico, capace di percorrere senza sforzo qualsiasi tipo di terreno.
L’occhio mi è caduto appunto su quello che un tempo veniva chiamato il “bracco pointer”.
Scoperto in Alvernia vanta origini molto antiche. L’opinione più diffusa è quella di alcuni appassionati di razza che sostengono sia stato introdotto in Alvernia nell’anno 1798, dai Cavalieri di Malta che, sconfitti da Bonaparte, ritornarono nella propria patria. Per altri intenditori, la teoria che questo Bracco sia autoctono è molto più probabile. Secondo altri deriverebbe dalla mescolanza del Bracco francese di grande taglia ed il Pointer bianco nero e questo spiegherebbe il particolare e caratteristico colore del mantello. La peculiarità del mantello sta infatti nella presenza su un mantello principalmente nero di macchie bianche (“robe noire à panachure blanche”) di grandezza variabile e non viceversa come normalmente si usa pensare.
La mia prima bracca è stata Sophie des Sources de la Hulotte, che, devo dire, non ha tradito le mie aspettative, rivelandosi fin dall'inizio una degna rappresentante della razza.
Sofie era un carattere forte, decisa con atteggiamento di caccia molto irrazionale che la faceva cacciare col cuore più che con la testa e questo la portava a risparmiarsi poco con tutte le conseguenze di un pelo raso nella macchia di marruche. Ricordo ancora quel giorno che al lago di S.Martino un cinghiale ferito del giorno prima l’ha fatta volare in aria come un pallone, o quella volta che a S.Michele un istrice l’ha imbullettata di spine su tutto il muso…un mugolio ma avanti come se nulla fosse! Poi è stata la volta di sua figlia Morena, carattere decisamente diverso, razionale, ragionatrice, molto più redditizia da un punto di vista venatorio e per un certo verso che si risparmiava di più soprattutto da un punto di vista fisico e questo in autunno con il caldo e la siccità è decisamente un vantaggio. Di temperamento anche lei molto deciso cacciava con la testa più che con il cuore. Di lei ricordo ancora quando da giovane è riuscita ad atterrare un capriolo in corsa. Una soglia del dolore incredibile…mi sono accorta che era stata ferita dal cinghiale solo al rientro alla macchina!
Poi è stata la volta di Baru, unica femmina deliziosa sia nel carattere che nella struttura fisica nella quale avevo riposto tutte le mie aspettative ma che purtroppo all’età di un anno la leishmaniosi l’ha portata via.
In ultimo per ora Fosca, figlia di Morena e Giò Bracco Leo du Ruisseau de Montbrun. Un soggetto tipico nello standard di razza e di lavoro che ha conseguito notevoli risultati. E’ in attesa dell’omologazione del titolo di Campione Italiano di Bellezza e sta partecipando a numerose gare su selvaggina naturale distinguendosi sempre come un buon cane da caccia.
Con la Fosca credo di essere riuscita ad imboccare la strada giusta per come io vorrei fosse il bracco d’Auvergne per la caccia.
Leggo una positiva apertura dei cacciatori a questa razza che finalmente la si giudica per quello che veramente deve essere svincolata dalle altre razze da ferma continentali (bracco francese, bracco tedesco..etc..).
Lo standard di lavoro è preciso e chiaro; il suo movimento definito “economique” è unico rispetto alle altre razze da ferma continentali. Non è né un “cane del vento” né un “cane che fiuta” ma un cane che “cerca e trova”; dalla sinergia di elementi quali intelligenza, finezza di naso, collegamento, ferma nasce il piacere di vedere un Bracco d’Auvergne in azione.
La sua robustezza viene messa in risalto da una forte muscolatura che indica energia e vigore. Nonostante ciò è mansueto e docile a tal punto che si adatta bene in casa, ama i bambini e ha un forte senso della proprietà ma resto dell’avviso che se lo amiamo veramente dobbiamo fargli fare il proprio lavoro!
Grazie alla collaborazione con il Club Italiano del Bracco Francese nella persona del Presidente Marco Ragatzu, che oggi tutela anche il Bracco d’Auvergne in Italia, stiamo cercando con grande forza di volontà di tutelare e selezionare con determinazione questa razza per dimostrare che anche in Italia si può e si deve fare “qualità” (Elisa Picci website).
I cani hanno rappresentato tutte le fasi della mia vita, vivono fisicamente con me, sono parte della famiglia e mi hanno accompagnato sempre e ovunque.
E’ un dato di fatto che il rapporto che nasce con il cane che vive in famiglia è decisamente diverso da quello che nasce con il cane che vive in canile. Vivere il cane in famiglia presuppone principalmente la sua conoscenza, il rispetto della sua indole naturale, della sua “selvaticità”, della sua necessità di avere delle regole. L’eccessiva “umanizzazione” (alias antropomorfismo), sostenuta anche dalla televisione che ha contribuito ad esaltare questi “nature fakers” (falsificatori della natura, John Burroughs), fa si che non si possa parlare più di “amore” nei loro confronti ma di vera e propria “violenza”, basti pensare agli effetti che questa scatena su di loro (obesità, stress, patologie cardiache, etc..).
A mio avviso è di fondamentale importanza, dati i numeri sempre crescenti di animali domestici presenti nelle nostre case, che l’educazione alla cura degli animali sia fatta già dalla tenera età. I bambini dovrebbero approcciarsi già da piccoli alla responsabilità di un animale, sia esso un cane un gatto, un pesciolino o un animale selvatico. Non a caso in questo periodo (aprile/maggio) è di vitale importanza sapersi muovere di fronte al rinvenimento in bosco o nei giardini di piccoli di animali selvatici….laddove c’è la conoscenza c’è la vita!
Nel 2016 durante l’udienza giubilare in piazza S. Pietro Papa Francesco nel suo discorso, tanto contrastato da parte di animalisti di tutte le etichette, ha espresso una verità importantissima che stiamo perdendo di vista da un bel po’: la “priorità di valori”. Se riusciamo ad amare più gli uomini forse rispetteremo di più anche i nostri tanto amati amici a quattro zampe. |