Ridurre l'impatto della presenza umana sulla terra e ottimizzare i consumi delle risorse a disposizione, almeno a parole, sembra essere l'imperativo vincente del nuovo millennio. Concetti chiave come “sostenibilità” e “green economy” sono entrati ormai a far parte della nostra quotidianità e vengono utilizzati per definire tutta una serie di strategie e politiche lungimiranti che tengano conto della “finitezza” delle fonti a nostra disposizione.
Il titolo di una notizia di qualche giorno fa (vedi BigHunter) di grande impatto comunicativo “un cane in un anno inquina più di un Suv”, ha portato a galla una grande verità finora pressochè ignorata dal mondo animalista, dimostrata e dimostrabile grazie ad un complicato sistema di riferimenti e coefficienti che oggi permettono di misurare l'impatto sulla terra di qualsiasi cosa animata e inanimata e confrontare i risultati tra di loro, calcolatrice alla mano: gli animali domestici inquinano quanto, se non di più, dei veicoli sulle nostre strade.
Secondo questi calcoli, che quantificano la quantità di terreno necessaria per produrre le energie consumate, un cane utilizza l'equivalente di 0,84 ettari all'anno, un gatto 0,15 (pari al consumo di una grande utilitaria), due criceti 0,028 ettari (un televisore al plasma), e addirittura un pesce rosso consumerebbe quanto due telefoni cellulari. Senza nulla togliere ai nostri fedeli compagni a quattro zampe (ironicamente gli autori dello studio – due architetti britannici Robert e Brenda Vale, specializzati in pratiche di vita sostenibile - suggeriscono di mangiarsi i propri cani per ovviare all'inconveniente), la ricerca in realtà ci aiuta a focalizzare che ci sono altri fattori di inquinamento altrettanto incisivi ma comunemente ignorati.
Nel mondo gli animali domestici sono milioni e milioni. Solo in Italia, secondo l'Eurispes che ha rielaborato i dati (2006) del Ministero della Salute, abbiamo 6 milioni di cani e quasi altrettanti gatti di proprietà, a cui vanno aggiunti i randagi: 441 mila esemplari nei canili e 2,5 milioni di gatti sparsi per la penisola. Se ogni cane di media taglia in un anno consuma 164 kg di carne e 95 kg di cereali, immaginiamoci quanti altri animali d'allevamento devono essere mantenuti per la sua (e per la nostra) alimentazione.
Non ci si pensa molto ma uno dei fattori più nefasti per il clima è proprio l'allevamento intensivo. La crescente domanda di carne, uova e formaggi (sono sempre di più i Paesi in via di sviluppo che cambiano i propri consumi alimentari) porta ogni anno a sottrarre migliaia di ettari di terreno alla natura, tanto che già circa la metà delle terre fertili del pianeta è oggi adibita a pascoli e alla coltivazione di cereali e foraggi destinati al nutrimento dei capi di bestiame. Se si pensa che ad un vitello occorrono 13 kg di mangime per aumentare di un kg e che ogni bovino adulto consuma almeno 200 litri di acqua al giorno, si ha un'idea marginale dell'impatto che l'allevamento di bestiame ha sulla terra. A questo bisogna aggiungere che le deiezioni degli animali allevati sono tra le principali cause, se non la prima, del degrado del suolo e delle risorse idriche e che i gas nocivi prodotti dagli intestini di bovini, suini, ovini e quant'altro arrivano a costituire il 51 per cento delle emissioni totali di gas tossici nell'atmosfera (prima causa dei cambiamenti climatici).
A dispetto degli interessi economici enormi che gravitano attorno a questo sistema di cose, non si può non vedere che un mondo basato su una sproporzione così grande tra risorse a disposizione e risorse effettivamente consumate (e sprecate), rischia di implodere su se stesso e di trascinarci tutti a fondo in poche decine di anni, così come paventato da climatologi e scienziati di tutto il mondo.
E la caccia che ruolo può avere in tutto questo?
Semplicemente può rivendicare il proprio ruolo e imporsi come valida integrazione in un sistema da riposizionare. Al di là dei toni allarmanti delle associazioni animaliste (che hanno finora dimostrato di non poter essere ragionevoli in fatto di gestione della fauna, che sia selvatica o domestica) la stragrande maggioranza di selvatici nelle aree non antropizzate finisce i suoi giorni per cause naturali e non incontra mai le cosiddette “doppiette assassine”.
La fauna che vive nei nostri boschi è un patrimonio alimentare immenso e poco valorizzato, il cui prelievo, anche grazie alla regolamentazione nazionale e comunitaria è oggi assolutamente eco-compatibile. Razionalizzare e rendere compatibile con l'idea di un diverso consumo delle risorse, rimettere in circolo queste “energie” altrimenti perdute, magari portandole sulle tavole dei cittadini, farebbe sicuramente bene alla caccia, all'economia, all'ambiente ed anche alla nostra salute.
In soldoni, tutto ciò potrebbe contribuire anche ad imporre in modo più incisivo sui tavoli istituzionali il tema della salvaguardia degli ambienti naturali e a rivedere l'assurda imposizione del rispetto di percentuali predefinite di aree non aperte al prelievo venatorio, che sono solo un costo per lo Stato, così come a riportare in auge la vita di campagna e le tradizioni ad essa legate, ridimensionando il rapporto con gli esseri viventi in contrapposizione con una distorta idea di progresso, tutta plastica e cemento.
Una volta la carne era un lusso e mangiarla era una festa. Non a caso ad essa veniva dato un posto di pregio sulle nostre tavole al pranzo della domenica. La consapevolezza di ciò che si ha nel piatto, delle energie che sono servite per comporre le succulenti aggregazioni di proteine e sali minerali di una bistecca, il rispetto della vita che si trasforma in nutrimento, sono valori che la tradizione venatoria porta con sé da sempre e che oggi si cerca di recuperare a fatica, trovando la ferma opposizione di chi non fa altro che mistificare la funzione regolatrice della pratica venatoria, la quale applica per prima il principio di sostenibilità.
In ognuno di noi a poco a poco comincia a farsi strada la consapevolezza di ciò che consumiamo e produciamo in termini di scarti e sostanze nocive e di quanto questo costi all'ambiente e paradossalmente a noi stessi. I primi catastrofici effetti di ciò che può fare l'indifferenza dell'Homo Sapiens sono davanti ai nostri occhi, forse è arrivato il momento di fare tutti una seria riflessione e orientare i nostri consumi verso “alimenti” più compatibili con la nostra esistenza e con quella delle generazioni future. La caccia può dare un concreto contibuto.
Cinzia Funcis