La notizia è senza dubbio di prima qualità. Almeno per l’Italia. La Regione Toscana, con una legge appena approvata, consente anche ai singoli cittadini cacciatori di “vendere” il frutto della propria attività venatoria. Intendiamoci, la legge sulla caccia prevedeva già che per un ristretto novero di specie oggetto di caccia vi potesse essere commercio e somministrazione di piatti tipici in ristoranti e trattorie. Il cinghiale, ormai in buona parte del paese, è oggetto di uno dei piatti più popolari che gli italiani possono degustare, soprattutto nelle trattorie di campagna.
E fosse anche solo per questo, lo dobbiamo ringraziare, questo irsuto abitatore della macchia, che se si esclude la Brambilla e poche altre passionarie non gode di soverchie simpatie fra la gente, e soprattutto per la sua carne è apprezzato oltre ogni tabù ideologico, tanto da essere riuscito a far accettare l’idea della caccia anche alle componenti più ostili della nostra società. Ma aldilà del cinghiale, basta aprire un menù delle tante trattorie dei nostri distretti alpini, per capire quanto la buona tavola giochi a favore della cultura della caccia. Camoscio, cervo e capriolo, fanno da sempre bella mostra di sé fra i piatti più popolari apprezzati da escursionisti e sciatori, notoriamente intrisi per lo più di cultura “metropolitana” (e quindi non teneri nei nostri confronti).
Senza dimenticare che i tanti turisti italiani che varcano i nostri confini per avventurarsi nella felice Mitteleuropea, senza distinzione fra est e ovest, smettono di pensare alla caccia come a un’attività barbara, cruenta, disdicevole per l’odierno Homo tecnologicus, conquistati dai nobili sapori della carne di cervo o di camoscio, ingentilita dalle straordinarie salsette di ribes o di lamponi o di mirtilli.
La domanda che nasce spontanea, tanto per richiamarsi a una nota trasmissione televisiva che guarda caso tratta della salute dei cittadini, è: perché questa scelta toscana, che a primo avviso apparirebbe impopolare, è stata immaginata e messa in pratica dagli amministratori di una regione, che certi blogger anche della caccia additano come non molto amici dei cacciatori?
La risposta, a nostro avviso, si sostanzia in primo luogo col fatto che l’Italia, e la Toscana in particolare, è ricca di selvaggina. Almeno di certa selvaggina, compatibile col tipo di territorio, e di colture agricole che vi si praticano; con l’aggiunta che in certi ambienti caratterizzati da colture di pregio, i vigneti ad esempio, gli ungulati causano ingenti danni e quindi vanno tenuti sotto stretta sorveglianza. Che questa selvaggina può acquisire un ulteriore valore economico, se posta in commercio. Che il consumo diffuso di questa carne, allevata e cresciuta sul territorio nazionale, può contribuire a mantenere produttive certe aree rurali, l’Appennino ad esempio, altrimenti votate al degrado. Che il patrimonio faunistico, inteso come fonte alimentare, può contribuire al fabbisogno proteico, andando ad incidere positivamente sulla bilancia dei pagamenti, visto che la carne che si consuma in abbondanza sulle tavole degli italiani è in buona parte d’importazione. Che la caccia, nel momento che acquisisce valenza primaria anche sotto il profilo economico, attraverso un prelievo equilibrato dei surplus, contribuisce a mantenere ricca quella che oggi viene definita biodiversità, nell’interesse di tutti, ambientalisti e animalisti compresi.
In più - quando sui banchi dei nostri centri commerciali le nostre massaie potranno scegliere fra un prosciutto di maiale e uno di cinghiale, fra un cosciotto di cervo e una lombata di vitello, fra un salame di lepre e un ragù di germano, debitamente soggetti alle più rigorose norme sanitarie - tramite la “cacciagione” diventata carne comunemente presente sulla tavola delle famiglie italiane, l’idea che la caccia è un retaggio di antica barbarie non passerà più nemmeno nell’anticamera del cervello. A nessuno!
Qualcuno, anche fra i cacciatori, potrà pensare che non è giusto ridurre l’idea romantica della caccia a un più prosaico fenomeno di pratiche mercantili. Ma anche qui, un saggio uso (quel wise use, definito nella Carta del programma della Federazione dei Cacciatori Europei) di questo incommensurabile patrimonio (storico, culturale, sociale), non potrà che consentire di praticare ancora di più e ancora meglio a tutti noi, e ai nostri figli e ai nostri nipoti, questa passione per la quale ancora oggi, nell’era di internet, ci compiaciamo – incompresi visionari – di elevare suppliche a Diana.
Quindi, diamo il benvenuto anche in Italia a questa disposizione rivoluzionaria. E auguriamoci che nel futuro possa essere adottata su tutto il territorio nazionale.
Pietro Niccoli