In un suo vecchio film, Nanni Moretti si domandava se la Nutella, così buona, fosse di destra o di sinistra. Se lo chiesero in molti, di quella generazione, ma quale che fosse la risposta, continuarono a spalmarla sul pane, poi sui biscotti, poi sulle crèpes.
Sulla falsariga di questo interrogativo epocale, il dibattito un po’ artefatto, che si è sviluppato in questi giorni anche sulle pagine dei giornali, sulla caccia e sulla sua “essenza” aristocratica o proletaria, come se non mancassero altri e ben più sostanziosi argomenti, invita a qualche considerazione.
La prima, la più ovvia, è che oggi i termini sinistra e destra, progressisti e conservatori non corrispondono più a categorie precise. In ogni caso, tutto va ascritto al tempo e al luogo in cui questi concetti vengono espressi. In Francia, ad esempio, all’ epoca della rivoluzione, il Popolo s’impadronì del diritto di caccia, fino ad allora appannaggio esclusivo delle classi privilegiate. A qualche secolo di distanza, nella democratica terra dei cugini d’oltralpe, la caccia (“popolare”, visto che viene ancora praticata da un milione e mezzo di francesi) è da tempo tornata appannaggio dei proprietari del terreno, che – detto sommariamente - la danno in concessione onerosa alle associazioni dipartimentali dei cacciatori. Vaste aree sono ancora acquisite da pochi e privilegiati seguaci di Saint Hubert.
In Inghilterra, di contro, patria della prima democrazia costituzionale, guai a parlare di caccia libera a tutti. La “selvaggina”, anche quella migratoria, è nelle esclusive disponibilità dei proprietari della terra (landowners). Eppure anche là la caccia riuscì a portare in piazza centinaia di migliaia di “rurali” a difesa della tradizionale caccia alla volpe. Una passione di popolo, quindi, come ha testimoniato giorni fa proprio il quotidiano The Times, che contrariamente ai nostri giornali, di varia connotazione politica (qualcuno, a sorpresa, anche con la G maiuscola), affronta la questione con serietà e rigore. E fa riferimenti a costi, a categorie sociali, a una tradizione e a una cultura consolidata, che non distinguono granchè fra di censo e classe – “gli aristocratici, si legge ad esempio, andrebbero a caccia con chiunque”; infatti, è quello che succede da secoli nelle campagne di quelle parti - per dimostrare, alla fine, che la caccia è la caccia. Non ha né destra né sinistra. Dipende dal contesto e, soprattutto, dal portafoglio. Sono gli uomini, a volte le donne, anche ministre, a fare confusione nella loro testolina impegnata più a dimostrare che il loro pensiero, relativo, in qualche caso piuttosto superficiale, ha valore assoluto, piuttosto che farsi carico dei problemi e affrontarli nella loro complessità.. E qui non è questione di destra o di sinistra, è solo questione di potere. Potere di dire la propria senza contraddittorio o quasi. Una volta si diceva: più alzi la voce e più ti sentono. Oggi si potrebbe argomentare: chi ha accesso ai grandi mezzi di comunicazione ha più ragione degli altri, anche se quello che dice è una vera e propria fregnaccia.
Ma torniamo alla caccia. Alla nostra caccia. Le profonde trasformazioni della società italiana hanno influito anche sulle nostre abitudini di cacciatori. All’inizio del secolo scorso, la caccia era figlia della diffusa cultura rurale, appannaggio di proprietari terrieri e contadini, con la piccola e media borghesia che faceva da modesto contorno. La differenza, più che le leggi, pur classiste, la faceva il portafoglio.
La voglia d’impero e la conseguente necessità di sette milioni di baionette produssero norme che offrirono maggiori opportunità venatorie a una schiera più vasta di appassionati. L’abbandono delle campagne del dopoguerra, l’inurbamento di moltissimi ex contadini (con i piedi in città, ma col cuore ancora in campagna), l’aumentato benessere, la possibilità di spostarsi anche a medie e lunghe distanze, fecero della caccia uno degli sport più popolari in assoluto.
Con la popolarità, anche la politica e gli affari con le loro capacità di condizionamento si inserirono considerevolmente a tutti i livelli all’interno e all’esterno del fenomeno. Nacquero più associazioni venatorie, anche con chiare connotazioni partitiche, si formarono correnti di pensiero, alimentate dalle numerose riviste venatorie. Si consolidò anche quella coscienza naturalistica, che fra i cacciatori c’era sempre stata. In qualche caso, all’interno del mondo della caccia, ci fu anche chi provò a strumentalizzarla – la coscienza ambientalista - per opporsi a quel fenomeno di liberalizzazione dell’attività venatoria che mirava a ridurre il territorio soggetto a caccia riservata. I tanti referendum, il reiterato e mai sopito assalto all’articolo 842 del Codice Civile, che consente ai cacciatori – e solo a loro – di accedere ai terreni privati senza autorizzazione, sono il segnale più chiaro che aldilà dei sentimenti, delle passioni, delle sensibilità - quella animalista che si sta consolidando anche nel nostro paese è sicuramente fra le più pericolose non solo per la caccia, ma per la nostra cultura umanistica – dietro al fermento ideologico (la caccia è di destra o di sinistra?), ci sono interessi ben più corposi. Collegati sicuramente a politiche d’uso del territorio. Ma anche della fauna selvatica.
E allora? Tornando a bomba. La caccia italiana è di destra, o di sinistra? La questione, a nostro avviso, è piuttosto complicata. Le ottocentomila firme a sostegno del disegno di legge Orsi (PDL), visto i proponenti (e visto gli opponenti: Della Seta-PD), la vorrebbero di destra. Popolare, ma di destra. Le improvvide uscite della Ministra Brambilla (PDL) e della Sottosegretaria Martini (Lega Nord) farebbero credere di no. Come la riforma della legge della Regione Toscana (felix, ma pur sempre rossa). Mentre il diffuso seppur variegato ricorso alle deroghe da parte di Lombardia, Veneto, Liguria, Toscana, Emilia Romagna, fanno invece pensare che il richiamo della tradizione non ha colore. E’ trasversale. Come trasversale è il sentimento che cresce nell’opinione pubblica, a favore o contro questa nostra passione.
Come se ne esce? Come diceva un amico, che tu sia predatore o preda, alle prime luci dell’alba devi correre. Chi non corre, se è preda viene divorato. Se è predatore non mangia. Per quello che ci riguarda, noi, cacciatori, che siamo ancora additati come predatori, stiamo scivolando sempre di più verso la condizione di preda. Se non corriamo, se non ci dotiamo di strategie nuove, se non acquisiamo più consapevolezza di quello che è il nostro ruolo sul territorio e nella società, se non ci diamo da fare per rinnovare i nostri slogan, se non acquisiamo alla nostra causa i giovani, e – perché no – le donne, se non ci dotiamo degli stessi strumenti dei nostri avversari……
Ce la faremo?
Noi crediamo di si. Ma ci dovremo impegnare. Tutti. Ricordandoci della Nutella.
Paolo Corsetti