Corre sempre più voce che lo Stato è alla vigila della bancarotta. E' una esagerazione, ovviamente, per un paese che – in Europa - a garanzia dei debiti - ingenti, non c'è dubbio - insieme alle risorse, ingenti, del patrimonio pubblico, ha fatto leva anche sui risparmi degli italiani. Che ammontano a più di ottomila miliardi di euro, quattro volte il debito, caso unico al mondo. Certo è, tuttavia, che questa nostra classe dirigente, che non nasce dal vuoto siderale, ma è – “digiamogelo” una volta per tutte – l'espressione del cuore e della pancia del popolo italico, dovrà presto ricorrere ai ripari. Ovvero: recuperare consensi dimostrando che riesce a ridurre gli sprechi, migliorare le performances finanziarie, tornare con i piedi per terra, dopo decenni di serafica permanenza su...Marte.
Fra i tanti sprechi, quelli collegati alla cosiddetta “tutela ambientale” sono fra i più evidenti. Soprattutto a noi cacciatori che, nel mentre paghiamo profumatamente per esercitare un nostro diritto sancito costituzionalmente, contribuiamo col nostro impegno e il nostro portafoglio a fare quel poco che si fa, proprio in termini di salvaguardia del territorio e difesa del patrimonio faunistico.
Non è più possibile assistere passivamente alla dissipazione di risorse pubbliche per alimentare la cattiva gestione di tanti parchi e di tante aree protette. Dove si annovera un surplus di personale col quale un semplicissimo imprenditore privato, un contadino per esempio, dissoderebbe e metterebbe a frutto tutta la SAF (Superficie Agricola e Forestale) del paese. Si sa di parchi che contano più di settanta dipendenti, e che quando c'è da fare qualcosa, affidano lauti incarichi e consulenze a professionisti esterni.
Non che in certi ATC se la passino meglio. Quando si impiega una parte consistente delle quote dei cacciatori per pagare affitti di sedi e progetti fotocopia affidati spesso ai soliti noti.
Poi c'è il problema danni. La cui causa principale sta proprio nella farraginosa gestione dei controlli. Con gli agricoltori che protestano, gli ambientalisti che contestano e le amministrazioni pubbliche che - nel gestire l'eterna emergenza - non sanno più a che santo votarsi. Non soltanto oggi, ma soprattutto domani, quando con un popolo dei cacciatori che sta invecchiando, sarà sempre più difficile recuperare manodopera a costo zero. Perchè se i talkshow e le striscielenotizie sono affollate da protezionisti da salotto, quando c'è da fare sul campo sono sempre i soliti cacciatori che si vedono all'opera, magari con la fascia di "Volontario della Protezione Civile”. E pensare che il problema dipende proprio da quel 30% di territorio “santuario” dove guai a chi tocca un animale, che ieri si chiamava “nocivo”, oggi per la logica del politically correct è stato ribattezzato “opportunista”. (Speriamo che la convocazione d'urgenza di governo e parlamento sul problema dia presto le risposte che tutte le persone sane di mente si attendono).
Quando poi, e questo appare ormai assurdo, non poche amministrazioni attingono ai fondi dei cacciatori per finanziare progetti presentati, sostenuti sui media e immaginificamente gestiti dalle organizzazioni ambientaliste. Che poi, pensa un po', magari usufruendo degli stessi soldi, imbastiscono feroci campagne anticaccia. Il tutto favorito da un Ente, oggi denominato ISPRA (ieri Infs/IstitutoNazionaleFaunaSelvatica; ieri l'altro INBS/IstitutoNazionaleBiologiaSelvaggina; e ancora prima Laboratorio di Zoologia Applicata alla Caccia), che istituzionalmente dovrebbe occuparsi di attività venatoria e fauna selvatica, mentre invece, dipendendo dal Ministero dell'Ambiente, è condizionato, ovviamente, da politiche ambientaliste che fanno da paravento ai decenni di cattiva gestione dei veri problemi ambientali del nostro beneamato paese: inquinamenti, dissesto urbanistico, speculazioni fondiarie, incuria, ecomafie, ecoballe.
Un ente, che si permette di non fare (ricerca, raccolta dati) e proprio per questo di emettere sentenze di diniego causa la mancanza di dati. Un ente, che elabora linee guida sulla gestione degli ungulati, che vengono immediatamente bloccate per la palese inadeguatezza rispetto al problema stesso (l'esagerata consistenza delle popolazioni). Un ente, che si rifiuta di produrre linee guida sulla migratoria, perchè contesta quanto concordato a Bruxelles dagli organismi comunitari, ispirati da un organizzazione, Birdlife, il cui corrispondente in Italia è la stessa Lipu, dalle cui labbra pendono certi uffici del ministero.
A tutto questo, purtroppo, si aggiunge una profonda crisi delle vocazioni. Mancano i giovani cacciatori, mancano forze e menti fresche, manca il ricambio. O meglio, quello che c'è non è sufficiente. Nella futura allocazione delle (sempre più ridotte) risorse - in particolare: fondi e bilanci delle province (ex?) e degli ATC (urge almeno un accorpamento funzionale, altro che il supersdoppiamento suggerito dal cosiddetto tecnico Franco Perco) - oltre a ridurre gli sprechi, che ci sono, sarebbe perciò opportuno applicarsi per traghettare gli investimenti dalla voce ricerche-progetti (molto cari ai tecnici faunistici, ma ormai per la maggior parte difficilmente sostenibili), a quella (in buona parte da inventare) per rendere compatibile l'interconnessione fra prevenzione dei danni e gestione del rapporto fra capitale faunistico e territorio. Attingendo al volontariato (cacciatori in primis, visto che almeno le associazioni venatorie più attive oggi hanno nel loro statuto finalità sociali) e a certi dispositivi per l'occupazione giovanile (lavoro in agricoltura, cooperative, assegnazione di incarichi ad associazioni d'impresa).
Un modo - quello di creare lavoro - per richiamare l'attenzione dei giovani anche sul fenomeno culturale "caccia". Hai visto mai che offrendo opportunità di lavoro, sempre più giovani si riaffaccino al nostro mondo? C'è, sempre più impellente, ad esempio, il problema della trasformazione delle carni, della gestione forestale del bosco, il recupero dei sentieri con obiettivi anche venatori. Insomma, argomenti che fino ad ora – ma solo sulla carta, quella stampata - sono stati in buona parte appannaggio degli ambientalisti (spesso attingendo alle risorse provenienti dalla caccia), ma che potrebbero servire anche per rompere quella dicotomia che fino ad ora ha mantenuto (ad arte?) su posizioni contrapposte cacciatori e (fasulli?) tutori dell'ambiente.
Al proposito, sul recente rapporto “Multifunzionalità agricola, biodiversità e fauna selvatica”, coordinato da un ottimo tecnico, Marco Genghini, si legge di una “multiarticolata” realtà sull'appennino toscano, dove si conciliano numerose attività, fra le quali molte affidate ai cacciatori (censimenti, corsi, lezioni e guide sul territorio, ecc.), che tuttavia – con la semplice apposizione di un cartello - appaiono di fatto attribuite a una nota associazione ambientalista.
E allora, perchè non porre fine a questo maledetto ostracismo nei confronti della caccia e dei cacciatori e far risultare le cose come stanno?
Vito Rubini
P.S. Mi piace chiudere riproponendo una nota, quella postata da Ettore, su Bighunter del22/05/2013 , alle 20.17, nella quale sfido chiunque a non riconoscersi. Ormai e' risaputo – scrive Ettore - che le aree protette (cosi' come sono intese nel nostro paese) hanno fallito. Negli ultimi 20 anni abbiamo assistito ad un proliferare di questi territori che hanno portato soltanto a dei musei a cielo aperto, senza nessun tipo di ricavi e per lo più invisi alle popolazioni che ne sono prigioniere, alle quali popolazioni nella maggioranza dei casi prima dalle istituzioni sono state fatte promesse che la situazione andava sicuramente migliorando; purtroppo non e' andata mai cosi': sono stati fatti dei regolamenti assurdi; conosco delle persone che hanno dovuto cedere il loro bestiame, non si può raccogliere legna, ci sono forti limitazioni a raccogliere frutti di sottobosco, bisogna fare attenzione a non mettere una ruota fuori posto perche' ne va di una bella multa etc... ora io dico: ma non si può fare un parco con tutte le attività umane annesse, magari con una regola per ogni attività ma senza mettere divieti per tutto, come [succede] in alcuni parchi americani? E allora si' che il parco avrebbe un senso e di sicuro l'ambiente se ne gioverebbe. In poche parole si devono cogliere i frutti del parco (gli interessi che la natura ci offre, senza intaccare il capitale).
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