Siamo all'ultimo assalto. Il clamore provocato dal grave incidente sulla A1 fra Lodi e Casalpusterlengo, alle porte della capitale economica (e morale?) del Paese, ha rilanciato la questione ungulati, come sempre affrontata in emergenza, dando per scontato conseguentemente che in Italia manca la cultura - politica, etica e sociale - della programmazione.
Perdipiù, quando si toccano temi che hanno a che vedere anche lontanamente con la caccia, si scatena la vandea brambilliana, che ormai ha infettato anche i sottoscala della politica e della comunicazione, complice l'uso smodato dei social.
Da cacciatori, non sarebbe male una volta per tutte richiamare alla realtà queste anime belle, che tutte le volte pare si sveglino da un incubo ricorrrente.
Primo: l'insulso animalismo che ha determinato le scelte "ambientaliste" di questi ultimi trent'anni, con la copertura di enti scientifici piegati alla politica, ha portato al "disaccoppiamento" dei problemi. L'agricoltura da una parte, la gestione dell'ambiente dall'altra, con la caccia e la protezione del patrimonio faunistico in antitesi fra loro, anche se in buona parte regolate da un'unica normativa, la 157/92, a torto o a ragione famigerata, e soprattutto vecchia, anche se nel tempo ha subito turpi modifiche per penalizzare un'attività, la caccia, che invece andava e andrà a maggior ragione oggi valorizzata e riqualificata agli occhi dell'opinione pubblica come una delle attività più adatte per apportare benefici ai residui gioielli della natura dei quali ancor'oggi i nostri concittadini possono godere. La più desolante rappresentazione è racchiusa nell'enorme e costante perdita di suolo che le politiche ambientali del nostro apposito ministero non sono riuscite ad arginare in questo trentennio (la legge sui parchi e sulle aree protette, 394/91, è coeva della legge sulla caccia), vista l'incuria in cui versano i nostri parchi, secondo recenti rapporti poco più che stipendifici, dove l'unico principio che non viene disatteso è proprio il divieto assoluto di caccia, collegato alla mancanza di un prelievo coerente a una corretta gestione faunistico ambientale.
Secondo, ma conseguente: la trasformazione selvaggia dell'agricoltura. Il voler rincorrere modelli difficilmente applicabili sul nostro territorio sulla scorta di un'economicismo supportato da surrettizie elargizioni, ha distrutto in molti territori quell'equilibrio sublime che risponde al nome di "paesaggio", che non ha niente a che vedere con quella che viene fatta passare come natura selvaggia, scomparsa in Italia almeno dal tempo delle guerre puniche. Viene in mente lo stravolgimento agronomico delle risaie, che non consentono più l'abbondante presenza dei beccaccini di un tempo. Un velo pietoso sulla distruzione delle aree umide, che un tempo fornivano messi abbondanti di acquatici di tutti i generi, oggi confinate quasi esclusivamente in poche lande gestite secondo tradzione grazie alla passione, alla dedizione e alla competenza dei cacciatori.
Nel contempo, l'abbandono dell'Appennino, che copre la metà del territorio nazionale, ha portato al "miracolo" ungulati, una volta confinati nei "barchi" signorili, ma che oggi hanno preso piede ovunque, dando fiato al paradossale recupero del lupo, un secolo fa quasi scomparso, non certo per responsabilità dei cacciatori, ma conseguente alla tutela dei tanti armenti che popolavano boschi e pascoli, oggi ion recupero grazie al diffuso interesse per le nostre "preziose" DOP e IGP.
Terzo, ma determinante: la scellerata politica anticaccia che ha portato in meno di trent'anni a più che dimezzare il popolo dei cacciatori, falcidiato da sciocchi divieti di prelievo nei confronti della tradizionale selvaggina vanto della caccia italiana. Con l'Enci (Ente di tutela della qualità cinofila nostrana) che se non ha istituzionalizzato ancora il "bastardo", di sicuro ne ha favorito la tolleranza, incalzato probabilmente dal mercato dei pet. Quando un tempo le razze da caccia dettavano la linea.
E da qui viene il bello. Purtoppo. Poichè sulla terra niente succede per caso. Si farebbe un grande errore a considerare la caccia come vittima sacrificale, imbelle, in un mondo che corre tumultuosamente e si trasforma in conseguenza di spinte soprattutto economiche e sociali. Le testimonianze oltre confine, planetarie addirittura, ci dicono che pur nel cambiamento delle sensibilità collettive la caccia può ancora svolgere un ruolo importante, importantissimo, nella gestione delle aree rurali, o dell'ambiente in senso lato. L'anomalia tutta italiana risponde probabilmente anche a situazioni e realtà legate alle forme di gestione della caccia.
Nel tempo, anche da parte di certe componenti venatorie, ci sono stati tentativi di fare outing. Da una parte seguendo il fasullo ambientalismo all'amatriciana, che ci sta portando nel baratro, dall'altra cavalcando una protesta decontestualizzata, vecchia, foriera più di critiche che di consensi da parte dell' opinione pubblica e degli ambienti salottieri ormai avulsi da qualsiasi oggettività, rurale o ambientalista che fosse. Con le nostre associazioni venatorie e dirigenze di complemento più aduse a seguire la corrente per non perdere soci, piuttosto che adottare politiche di almeno medio respiro per affrontare e risolvere i veri problemi che stavano e stanno a cuore alla categoria.
Ecco che oggi, conseguenza di questo grave incidente autostradale, ognuno si affretta a dire la sua, col rischio che si ricorra a provvedimenti urgenti con conseguente incremento della conflittualità sociale, senza alcuna soluzione del problema: la presenza di ungulati, soprattutto cinghiali, ma anche lupi, in aree dove non dovrebbero stare e dove fanno anche danni ai prodotti agricoli di pregio, agli animali domestici o da carne, oltre che attentare alla sicurezza e all' incolumità delle persone.
Un modesto suggerimento, quindi, alla politica e al legislatore. La gestione di questo tipo di problema (e di fauna) deve essere estesa a tutto il territorio, soprattutto parchi e aree protette, vere e proprie nursery incontrollate. Occorre recuperare un equilibrio del rapporto interspecifico. Il lupo è uno dei tanti elementi che fa parte dell'ecosistema, non deve essere un idolo e va controllato, anche per evitare che cinghiali cervi e caprioli scendano dai monti o escano dai boschi, invadendo città (Genova, Roma) e autostrade senza neanche pagare il biglietto al casello. Ripristinare il ruolo sociale della caccia, smettendola di dare fiato alle tante brambille che affollano talkshow, media, web. Riadottare il ruolo cardine della caccia in seno al sistema rurale, riqualificando in parallelo le competenze ambientalistiche oggi scadute poco più che a barzelletta: paghiamo decine di milioni di sanzioni all'anno, perchè continuiamo a ignorare le disposizioni comunitarie, mentre per la caccia, nonostante gli allarmi degli ambientalisti di maniera siamo assolutamente in regola.
E per le nostre schiere, e soprattutto per i nostri dirigenti, riaffermare le nostre competenze, il più unitariamente possibile, rilanciare il ruolo dei cacciatori nella gestione del territorio (abbiamo più volontari noi che qualsiasi altra organizzazione, anche se ci dimentichiamo di farlo sapere), reclamare, reclamare, reclamare, proprio in virtù di questi nostri impegni e ruoli (sul problema del cinghiale si rilegga il parere dello studioso Náhlik), le nostre cacce tradizionali, quelle col cane ma anche quelle alla migratoria, grande, media e piccola.
Cosimo Pacetti