In questi giorni, complice questo clima selvaggio di campagna elettorale permanente, la caccia e i cacciatori sono oggetto di vergognosi attacchi da parte di un opportunismo senza pudore, che ha toccato punte stratosferiche, anche sui mezzi di comunicazione di massa, fino al turpe spettacolo messo in scena l'altra sera su Rai3. Per fornire strumenti utili a riequilibrare il dibattito e dimostrare che la caccia e i cacciatori sono ben altra cosa rispetto a quello con cui li si vorrebbe descrivere, riteniamo importante riproporre questo illuminante editoriale di Simona Pelliccia, segugista giovane e appassionata, donna colta, sensibile e impegnata nella caccia e nella società.
In una società in cui la dittatura dei mass media regna sovrana, la disinformazione è la causa primaria delle istanze volte all'abolizione di un'attività tanto antica quanto l'uomo, se pensiamo che molto plausibilmente il passaggio degli ominidi alla posizione bipede potrebbe essere spiegata proprio alla luce dell'esercizio venatorio. Nel paleolitico, la prima tecnica sviluppatasi è stata infatti quella della caccia per sfinimento; la preda veniva inseguita sino a che, esausta, diveniva avvicinabile e perciò poteva essere abbattuta.
Dalla caccia sono nati le tecniche militari, l'organizzazione della gerarchia sociale, nonché il linguaggio; l'attività venatoria non è definibile sport: è competizione tra l'uomo, animale razionale ma pur sempre animale, come ricorda Darwin, e le forze della natura, che molto spesso ci ricordano (con frequenti catastrofi) la nostra appartenenza al meccanismo inesorabile di nascita e distruzione, come ogni altro essere vivente.
Ancora oggi per molte popolazioni che vivono in condizioni di povertà assoluta, in ambienti poco adatti allo sviluppo dell'agricoltura e dell'allevamento, la caccia riveste una funzione primaria di sostentamento. Si pensi agli Inuit dell'Artico, o alle tribù di cacciatori-raccoglitori dell'Africa meridionale.
Nei paesi industrializzati, invece, la superbia degli uomini spesso giudica questa attività secondo un pensiero di idealistico buonismo e non realistico. Sono molti (o meglio, troppi) coloro che affermano con violenza ed ottuso rifiuto di dialogo che l'esercizio venatorio viola il diritto alla vita degli animali. La cultura ambientalista ed animalista sta diffondendo il pericoloso messaggio dell'esistenza di una natura fittizia in cui gli animali conversano amenamente come due signore nella sala da tè, piangono e si atteggiano come gli umani; si tace ai nostri figli la realtà, volendo negare i meccanismi che animano da millenni l'arena della vita, la competizione e la continua lotta per l'esistenza.
E' ormai di moda riservare (a parole!) agli animali i medesimi diritti di cui gode l'uomo.
Ma non dimentichiamo che avere gli stessi diritti implica il possesso degli stessi bisogni; e gli unici bisogni che in natura sembrano reggere la vita animale sono quelli della autodeterminazione e di un sano esplicarsi dello sviluppo del ciclo biologico; diritti che a me sembrano ampiamente violati dalle frequenti segregazioni in ambienti ben poco adatti alle esigenze di un animale e dalle costrizioni a cui viene spesso sottoposto nel momento in cui si cerca di “umanizzarlo”.
Sempre più frequentemente assistiamo all'insorgenza di patologie del comportamento in soggetti vittime della distorsione della visione del mondo che gruppi di fanatici (che poi magari dimenticano i figli in macchina, ma non scordano di mettere il cappottino rosa al cane prima di uscire nel parco) vorrebbero imporre come dogma.
Essi ignorano che la vita in natura non è affatto un diritto inviolabile, ma un insieme di vicissitudini rischiose, in cui quotidianamente la sfida per la vita mette alla prova ciascun essere.
Noi tutti siamo ancora spinti dagli stessi istinti dei nostri antenati preumani. Siamo divenuti predatori intelligenti, questo è innegabile, ma credo che nessuno possa avere una visione tanto onnicomprensiva e trascendente da poter dire con matematica certezza che uccidere un animale fino a quel momento libero in un ambiente adatto alle sue esigenze sia più crudele rispetto allo sparare un chiodo nella testa di un vitello costretto in uno spazio angusto nei pochi mesi precedenti alla sicura macellazione; e che sia più moralmente elevato nutrirsi di un animale allevato con mangime “artificiale” e che forse non si può dire che sia mai veramente vissuto.
Quello che fa maggiormente riflettere è la pericolosità della “cultura della delegazione”,così mi piace definirla: la gente accetta passivamente la morte e la sofferenza se non ne ha l'immediata percezione. E così, vedere un pezzo inanimato di carne nel banco del supermercato lascia la coscienza più pulita che non catturare una preda dopo un lungo inseguimento dall'esito, peraltro, non affatto scontato; in cui c'è un attivo confronto basato sull'astuzia, tra l'intelligenza umana (e quella dei suoi ausiliari) e quella della preda, nel rispetto della dignità.
L'unica certezza che credo possiamo ostentare è che per vivere ciascuno deve, volente o nolente, nutrirsi di un altro essere vivente. Senza morte non può esserci vita. E dividere in nette categorie gli esseri viventi, affermando implicitamente che un animale ha più diritti di una pianta, o che un cervo necessita di maggiore protezione di un ratto (si pensi alle accettatissime operazioni di derattizzazione) o degli insetti (crudelmente sterminati dagli agricoltori senza che nessun animalista alzi al cielo un grido) mi sembra un atto di cieca superbia. Chi può pretendere di sapere che vegetale è meno sensibile al dolore di un animale? Che un albero abbattuto per costruire un centro commerciale non prova sofferenza?
C'è un errore logico di fondo che dovrebbe essere abbandonato definitivamente: teniamo distinta l'attività “caccia” dalla comunità dei “cacciatori”; solo così sarà possibile evitare una condanna generalizzata di tutta la categoria per il sol fatto che vi sono dissennati dediti al bracconaggio e alla caccia “consumistica”; è lo stesso ragionamento che porta una qualsiasi persona dotata di buon senso a rifiutare un odio incondizionato della categoria “stranieri” solo perché alcuni stranieri sono ladri o assassini.
Ricordiamo che i problemi non si risolvono con l'abolizionismo, bensì con la regolamentazione.
C'è infine un'osservazione da muovere ai molti che accusano i cacciatori di uccidere per puro divertimento. Non dimentichiamo anzitutto che il divertimento è un bisogno mai fine a se stesso. Cosa dire poi di quei divertimenti che concorrono nel silenzio generale alla distruzione dell'ambiente? Basti pensare alla frenetica costruzione di parchi di divertimento e piste sciistiche (ma l'elenco sarebbe lungo) che hanno contribuito al disfacimento degli habitat che ospitavano moltissime forme di vita per soddisfare le esigenze di “divertimento” dell'uomo.
La caccia regolamentata in maniera seria e rispettosa svolge un ruolo fondamentale nella gestione della fauna selvatica al fine di mantenere la popolazione delle varie specie entro la capacità di mantenimento di ciascun ambiente ecologico. Se non fosse permessa l'attività venatoria, e questo concetto non è mai pubblicamente ammesso dai rappresentanti politici, i danni causati all'agricoltura dalla fauna selvatica sarebbero a carico non dei soli cittadini che, pagando, esercitano un diritto, ma diventerebbe necessariamente un aggravio per l'intera collettività, che certamente non accoglierebbe con favore un surplus di tassazione.
Caccia chiusa o caccia aperta, il ciclo di nascita e distruzione che permette alla vita di proseguire non avrà fine. Il dogma capitalistico dello sviluppo continuo si fonda sull'induzione di nuove false necessità e sulla mercificazione di bisogni prima soddisfatti altrimenti. Oggi si ammettono l'uccisione, la sofferenza e la distruzione purché tutto ciò non venga fatto alla luce del sole, complici. Tollerare senza sporcarsi le mani, ecco il nuovo motto.
Siamo ancora sicuri che si possa parlare di evoluzione della specie, o forse sarebbe più consono pensare ad un'involuzione della specie? Ai posteri (se ci saranno..!) l'ardua sentenza.