Premessa etologica. Siamo abituati a collocare le nostre riflessioni sulla caccia e sulla gestione della fauna, che ne è, per molti versi ormai, inscindibile corollario, dentro il quadro dell’attualità, della politica contingente. Accade anche quando, dichiaratamente, lo sforzo tende al respiro strategico, punta a disegnare scenari di più lungo periodo.
Suggerisco per una volta un approccio per così dire etologico, una riflessione sullo sviluppo che riguarda le specie, quella umana e le altre, nel loro rapporto, per poi tornare a leggere con gli occhi dell’oggi quella storia in divenire, di cui siamo punto di arrivo e di partenza.
Due milioni di anni fa l’uomo non esisteva: esisteva una specie di scimmia, molto più evoluta delle altre scimmie, che al contrario di altre aveva abbandonato gli alberi della foresta per addentrarsi nella savana; la creatura a mezza strada tra la scimmia e l’uomo, che si avventurò nel mare d’erba così ricco di pericoli era indifesa. Possedeva però due mani capaci di fabbricare attrezzi, due occhi che permettevano, data la loro posizione frontale, una stima automatica delle distanze, la statura eretta o semieretta ed un cervello abbastanza sviluppato. Con questi doni la creatura indifesa che ancora non era un uomo riuscì non solo ad evitare la propria distruzione nell’ambiente pericoloso della savana, ma addirittura a trarre dalla savana l’alimento essenziale che non avrebbe mai trovato sugli alberi in quantità necessaria e che col passare dei millenni la trasformò nell’uomo odierno: la carne.
L’uomo cui quella creatura dette origine, imparò, per procurarsi la carne, a ideare degli attrezzi particolari, fabbricarli, mettersi d’accordo con i propri simili per progettare il piano di caccia, creare un'organizzazione sociale con divisione dei compiti a seconda del sesso e dell’età e così via. Dopo due milioni e mezzo di anni l’uomo trovò nell’agricoltura prima e nella pastorizia poi, nuove fonti di sostentamento, ma nello stesso tempo la caccia aveva creato l’uomo.
Oggi l’Uomo che può in poche ore spostarsi in aereo da una parte all’altra del mondo, andare su altri mondi mediante astronavi sofisticate, e distruggere il proprio mondo con l’uso sconsiderato della bomba atomica, crede di essere una creatura superiore, molto al di sopra di tutte le altre creature della terra, ma anche se non vuole rendersene conto deve a forza convenire di essere una creatura come tutte le altre, non padrone assoluto della Natura: l’uomo fa parte della natura come qualunque essere vivente, pianta o animale, e nella natura egli deve svolgere una funzione preziosa, utilizzandone in modo consapevole le risorse, senza comprometterne la ricchezza e la varietà di vita e habitat.
Un branco di lupi non può programmare il prelievo dei cervi che costituiscono il loro nutrimento per cui, distrutti quasi tutti i cervi, i lupi rischiano di morire di fame. L’uomo può programmare l’uso delle risorse e deve programmarlo in modo che tali risorse non si esauriscano, ma addirittura che si conservino per un tempo indefinito.
Veniamo all’oggi, ai gridi di dolore per poca fauna e carnieri scarsi, o ai periodici allarmi perché è troppa, sbilanciata rispetto alle potenzialità del territorio, magari incompatibile con le attività agricole di qualità che vi insistono e con la presenza della piccola selvaggina stanziale.
L’approccio etologico ci dice che non conviene comportarsi come i lupi; a rendere attuale il tema della gestione, più di sempre se possibile, interviene anche il problema di legittimazione dell’immagine del cacciatore: laddove si riesce a dimostrare che l’uomo della doppietta non è solo un predone, ma sa coltivare l’ambiente e amministrare con saggezza e con risorse economiche tratte dalle proprie tasche la fauna, c’è una considerazione diversa di questo strano personaggio, erede di passioni ataviche e custode di attività nate con il genere umano.
Dobbiamo essere uomini e donne del nostro tempo e capire come è possibile abitare il futuro in una società così diversa da quella in cui siamo nati e cresciuti; dobbiamo farlo in fretta, perché dobbiamo recuperare ritardi e progettare una prospettiva sostenibile. Per farlo vanno messi dei punti fermi; tanto più necessari in un momento di dibattito sulle modifiche delle regole.
Sul piano nazionale: la legge 157/92, che è stata nel contempo punto d’arrivo di una fase e base di partenza per sviluppi ulteriori, ha creato le premesse per responsabilizzare le componenti sociali affidando la gestione di larga parte del territorio rurale alla compartecipazione, con gli enti locali, delle associazioni venatorie, agricole, ambientaliste.
Premesse e promesse non sempre mantenute: in mezzo gli ostacoli, i ritardi di molte Regioni, la non integrazione della programmazione faunistica con le politiche complessive di governo del territorio, la separatezza che permane con la gestione delle aree protette, ma anche una sostanziale arretratezza culturale sia del nostro popolo sia dei nostri antagonisti.
Ho letto con interesse sul Cacciatore Italiano l’articolo dell’amico Sammuri, presidente di Federparchi, a riguardo della biodiversità, completamente condivisibile sul piano scientifico e politico; tuttavia così come le associazioni venatorie, seppur su scala ridotta, debbono farsi carico di far comprendere ai loro iscritti che una caccia sociale (per tutti) non può prescindere che dall’utilizzo corretto delle risorse prodotte, — così gli ambientalisti debbono comprendere che la biodiversità si difende solo con la gestione anche dei “Parchi”. Non possiamo infatti ignorare che l’enorme consistenza di ungulati nei parchi è la prima ed esclusiva causa di precarietà della biodiversità.
Il tentativo incompetente di troppi residenti che imputano ai lanci del mondo venatorio tali consistenze fa trapelare una bieca ideologia che non dovrebbe fare parte di associazioni tecnicamente evolute.
Le leggi da anni vietano l’immissione sul territorio di cinghiali; ma anche non volendo cedere ad una polemica assurda sulle carenze nell’applicazione delle leggi esistenti, vorrei ricordare come i cacciatori, o meglio le Province, profondono i maggiori sforzi di ripopolamento per i fagiani che, guarda caso, sono la specie a maggior rischio di inquinamento genetico e di estinzione.
In Italia abbiamo avuto regioni e province dove si è provato a governare, mettendo in atto politiche faunistiche e venatorie, altre dove non lo si è fatto o non ci si è neppure posti il problema; abbiamo avuto governi che dopo la legge del ‘92 non hanno “governato” ma sono intervenuti soltanto con iniziative dovute per disposizioni comunitarie (spesso peraltro recepite male o parzialmente) o con atti d’emergenza, estranei ad un disegno organico di attuazione della riforma.
La verità è che resiste una visione duale del territorio: porzioni da proteggere, porzioni da sfruttare. Territorio e risorse naturali rinnovabili sono al contrario un fatto unitario, tutto da gestire: con gradi e modalità differenti in relazione a tanti fattori, ma tutto da gestire. In questo “fatto unitario” rientra la fauna, che va gestita su tutto il territorio. Ci sono invece “zone franche” (in senso geografico, come tanti parchi, ma anche figurato, come specie antagoniste o in soprannumero) sottratte alla gestione faunistica e fattore di squilibrio. Fra gli obbiettivi del “governare” dovrebbe esserci il coinvolgimento, l’utilizzazione dei cacciatori anche per queste gestioni, non la loro esclusione.
Questo è il vero filo conduttore per affrontare una modifica della normativa vigente che consenta di aiutare la crescita di corrette politiche di gestione.
Romeo Romei