Nell'ottica di dare il giusto senso ai valori che la caccia porta con sé in ogni sua sana espressione, vogliamo rispondere alle accuse di chi da alti pulpiti (in termini di raggiungibilità mediatica) incita l'opinione pubblica a scagliarsi contro la riforma sulla legge 157, senza per altro andare mai a fondo nell'affrontare i contenuti del testo che sta percorrendo il suo legittimo iter legislativo all'interno degli organi parlamentari preposti.
Per questo, proponiamo quanto scrive nel suo libro “Una porta nel cuore” Roberto Baggio, stella del calcio italiano e appassionato cacciatore nella vita di tutti i giorni, a dimostrazione che dalla caccia si traggono insegnamenti positivi e valori concreti.
Baggio, che nel testo che presentiamo si racconta a partire dalle sue esperienze di caccia iniziate quando aveva solo 5 anni, ci parla di come queste abbiano largamente contribuito a formare la sua persona. Lo dimostra, nei fatti, il comportamento da campione, sul campo e nella vita.
Il giorno della caccia
“Lo attendevo con frenesia. Ogni volta era il grande giorno. Si raggiungeva la postazione, che di solito veniva allestita sotto alberi dai rami radi, per non offrire troppo riparo gli altri uccelli.
Dopo aver foderato le pareti delle gabbie con un foglio di compensato, disponevano le voliere a semicerchio a varie altezze attorno al capanno, per impedire alle prede di scorgere i richiami da lontano, costringendole a svolazzargli attorno per cercarli. Poi s'iniziava la caccia vera e propria. Il momento migliore era di primo mattino, quando la fame e le gabbie schermate attenuavano la timidezza dei volatili, che, una volta sentiti i cinguettii, cercavano, scrutando dai rami più alti.
Diffidenti e curiosi, flettevano un po' alla volta le loro traiettorie, si avvicinavano a portata di tiro nella nebbia, una nebbia appesa come una sciarpa fluttuante.
L'avventura si rinnovava tutte le settimane: il venerdì sera, quando mio padre tornava dal lavoro, i miei occhi erano l'espressione della felicità. Non c'era violenza, e non c'era crudeltà. Tutto appariva naturale.
Stavamo alzati fino all'una di notte a preparare tutto e a controllare di non aver dimenticato nulla di ciò che potesse servirci. Poi stipavamo la macchina. Erano Sessanta o settanta gabbiette, fucili, cartucce, vestiti, capanni, e a volte anche un fratello.
Alle due e mezzo già mi svegliavo: non stavo in me dall'eccitazione. Spesso non riuscivo nemmeno a dormire quel breve intervallo di tempo: era la reazione dei miei cinque – sei anni alla paura che mio padre mi lasciasse a casa. Quando cominciava la stagione autunnale, che poi era quella della caccia, lui si chiedeva se stesse facendo bene a portare con sé un marmocchio, con quel freddo. Pensava che ero così piccolo da poterci stare male.
Se mi lasciava a casa, davo di matto. Così, finiva sempre che mi faceva mettere diverse paia di calzini, così tante che non mi entravano più gli scarponcini. Partivamo che era ancora notte fonda, per la nostra piccola spedizione di due giorni in Friuli.
Centocinquanta, duecento chilometri in macchina. Arrivavamo prima dell'alba, il vento tagliente, le stelle brillavano, l'enorme carico dell'automobile oscillava assieme a noi: io stavo andando a caccia con mio padre. Ed era bellissimo. Arrivavamo che era ancora buio, l'aria era gelida. Io lo seguivo con un po' d'apprensione, non vedevo nulla attorno a me e tremavo, per la paura e per il freddo. Lui diceva: “Robi, sbrigati, non avere paura, seguimi!”. Io ero eccitato. Mi immaginavo che giornate, che avventure. Era un mondo nuovo, che si spalancava all'improvviso. Fantastico”.
Tratto dal libro:
Una porta nel cielo
Limina Edizioni, 2001