E ne vado fiero. Sono un cacciatore anomalo? Non lo so. Sono un cacciatore. Mi sento un cacciatore. Vivo da cacciatore. Ho cominciato con mio padre. In anni in cui la campagna era la campagna, non un'industria, una fabbrica a cielo aperto, di granaglie, foraggi, mele incassettate già da lì. Si cacciava dal rigogolo al prisopolone, la pispola, la starna vera, la lepre nostrale, le marzaiole, i fagiani nati lì. Tordi e colombi finivano in carniere, i funghi nel cesto, le castagne in tagana.
I caprioli, non cacciabili, si catturavano e andavano a ripopolare un po' in qua un po' in là, si facevano puntatine in maremma per la caccia grossa. Epiche braccate anche in aree dove sarebbero presto arrivati i parchi. Che arrivarono, abbondanti. Una novità che denunciava un difetto. Mentre prima era tutto campagna, era tutto territorio rurale, curato così da centinaia di anni, con i suoi equilibri, la parcomania diventava una valvola di sfogo per permettere ad altri di fare agricoltura moderna e colare cemento, il progresso insomma, senza soverchi vincoli.
Arrivò il cinghiale, piano piano un po' ovunque. Il capriolo che non si sapeva più a chi regalarlo divenne oggetto di caccia. Tutto regolamentato, ovviamente. Da migratorista, anch'io cominciai a mettere nella cartuccera tre o quattro brenneke, insieme a qualche dispersante per la beccaccia, piombo fine nel tascapane, in discreta quantità, per i fringuelli, pallini del 6 o del 7 per i colombacci. Ero un bruciasiepi? No. Non mi sono mai sentito tale. Grazie alle circostanze favorevoli, praticavo più cacce. Ma con passione, con dedizione, direi con attenzione. Da cacciatore informato. Ne sapevo e ne so di più di un qualsiasi moderno selettore che ha fatto corsi e sostenuto esami degni di una sessione universitaria. Forse un po' meno teoria, ma tanta conoscenza sul campo, grazie ai compagni di caccia, agli anziani, grazie a una rete di "esperti" la cui componente dominante erano vecchi contadini, veri e propri tuttologi della natura, del ciclo delle stagioni, della vita e della morte, del rapporto che oggi chiamano intra e inter/ specifico. E dei limiti dell'uomo nei confronti del creato. Fede, mistero, un po' di proverbi, un po' di fatalismo, memoria, ma tanta saggezza.
Un cambio di passo, nel frattempo, che ha trasformato me come tanti da migratoristi-prevalenti in praticanti-tuttacaccia, nel rispetto delle regole, ovviamente, e soprattutto dei rapporti che intanto si sono andati consolidando. Per il capriolo devi prima impegnarti nei censimenti (ancor più per il cervo, che oggi ogni tanto ti tocca), per il cinghiale guai se non rispetti l'autorità, e l'autorità nella squadra ce l'ha il capocaccia, con la stoffa da leader. S'impara di più nel partecipare alle attività di un clan cinghialaro (anche per la gestione del bosco a vantaggio della comunità intera) che a frequentare un corso per l'abilitazione al cervo.
Ma, per conchiudere, mi si chiedesse - e personalmente ogni tanto me lo chiedo - fra tutte queste forme di caccia, oggi definite specializzazioni, così come purtoppo le ha accreditate anche la legge sulla caccia (art.12, comma 5 della 157), qual è la caccia che più ti senti addosso? La risposta, almeno per ora, e con malcelato orgoglio, è ancora la stessa: sono cacciatore, mi sento cacciatore, voglio essere cacciatore. Mi piace la caccia, voglio sperimentarla tutta, nei limiti delle mie possibilità, affinandone il più possibile le conoscenze, nel rispetto delle sensibilità altrui, con l'impegno che queste mie vitali esperienze possano essere patrimonio anche di chi verrà dopo di me.
Antonio Ranieri
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