A partire dalla metà del secolo scorso, nel territorio della nostra penisola, si sono verificate rapide e radicali trasformazioni, a causa, essenzialmente, dell’evoluzione delle caratteristiche socio-economiche del Paese. Lo sviluppo dell’industrializzazione, l’esodo dalle aree rurali più marginali, l’urbanizzazione, l’evoluzione degli indirizzi produttivi e delle tecniche operative adottate nel comparto agricolo-forestale, hanno causato profonde trasformazioni degli ecosistemi rurali.
Va da sé che molte specie animali selvatiche, già presenti nelle nostre campagne da tempi storici, hanno risentito fortemente di tali trasformazioni ambientali e sono andate incontro ad inesorabile declino. Al contrario, si è assistito alla ricomparsa e alla espansione, spaziale e numerica, di specie selvatiche da tempo estinte o limitatamente presenti in comprensori rari e circoscritti.
È questo il caso, ad esempio, dei grandi mammiferi (erbivori e carnivori); interventi successivi di ripopolamento o di reintroduzione, spesso non razionali e non accompagnati dall’adozione di corrette tecniche gestionali, assieme all’abbandono di territori agricoli marginali e all’espansione degli ecosistemi forestali, hanno favorito, ad esempio, in molte regioni l’incremento numerico degli ungulati, spesso oltre i limiti della sostenibilità ambientale (ca. 160.000 capi di capriolo e 170.000 capi di cinghiale stimati in Toscana nei soli Distretti di caccia e nelle A.F.V, Regione Toscana, PRAF 2012-2015 aggiornato).
La diffusa presenza di tali selvatici, sta oggi determinando in molte regioni italiane una serie di problemi rilevanti, fra i quali, quelli più consistenti, riguardano i danni provocati alle produzioni agricole e forestali da parte della fauna ungulata (ca. 1.700.000 euro di danni risarciti solo nel 2011 in Toscana, Regione Toscana, PRAF 2012-2015 aggiornato) e i danni arrecati dal lupo (il cui incremento è in buona parte a questa correlato) alle attività zootecniche.
Per secoli, la fauna selvatica, stanziale e migratoria, ha rappresentato una componente fondamentale da annoverarsi fra i “prodotti” del territorio rurale, un “frutto della terra, dell’aria e delle acque” indispensabile e capace di fornire integrazione ai redditi familiari, alle carenze alimentari, alla sopravvivenza e al consolidamento dei rapporti sociali di intere popolazioni.
Nei decenni relativi al manifestarsi delle trasformazioni sopra ricordate, e in quelli ad essi immediatamente successivi, venuto a mancare lo stretto legame di “dipendenza per necessità”, fra l’uomo e il patrimonio faunistico, che in qualche modo implicava una primordiale esigenza di conservazione del bene a garanzia delle necessità future, si è assistito al nascere e al graduale trasformarsi di un diverso rapporto fra uomo e fauna selvatica.
La rottura degli stretti legami col mondo rurale è stato uno dei principali motivi che hanno determinato, oltre alla profonda trasformazione del territorio, un comportamento umano che si è concretizzato in prelievi irrazionali a carico di talune specie selvatiche, oramai non più considerate componenti essenziale del “proprio mondo” ma “res nullius” nel senso più deteriore, cioè cosa di nessuno di cui appropriarsi senza limiti e senza regole “prima che lo possano fare altri”. E, in quegli anni, sempre più scarsa attenzione veniva riservata alle esigenze della conservazione e del ripristino di condizioni di salvaguardia dell’equilibrio fra le diverse componenti faunistiche.
A questa fase seguì, di conseguenza, un periodo in cui prevalse un altrettanto irrazionale e ir-ragionevole “impeto” conservazionistico non sempre basato su fondamenti tecnico-scientifici, né sulla considerazione dell’esigenza di porre le basi per un equilibrio sostenibile fra le diverse com-ponenti ecologiche e di queste con le attività umane, ma spesso su impulsi emozionali.
Oggi pare maturo il momento per porre le fondamenta di un più produttivo rapporto fra mondo agricolo e mondo venatorio, allo scopo di giungere ad una migliore valorizzazione della fauna selvatica, così da trasformarla da “problema” in “opportunità”.
Per ottimizzare sia il raggiungimento degli obiettivi della caccia di selezione (raggiungimento di densità e strutture di popolazione ottimali) che per rendere più efficaci le operazioni di controllo diretto (abbattimenti) è necessario prevedere infatti una maggiore integrazione fra il mondo venatorio e quello degli imprenditori agricolo-forestali. Una migliore collaborazione fra queste due componenti potrebbe infatti consentire di ottimizzare i risultati degli abbattimenti e dei prelievi, indirizzandoli verso le aree maggiormente interessate dai danneggiamenti per la presenza eccessiva di ungulati.
Le linee guida ISPRA 91/2013 indicano ad esempio, a proposito dell’ubicazione degli interventi di controllo, che questa debba coincidere con le aree a maggior concentrazione degli individui nel corso dell’anno per il cervo, mentre nel caso del capriolo gli interventi dovrebbero essere realizzati in particolare a ridosso dei siti in cui si registrano gli impatti più consistenti.
La realizzazione di colture a perdere a scopo faunistico, vale a dire i cosiddetti “food plots” molto diffusi negli Stati Uniti, realizzate in posizioni strategiche, e quindi in grado di attrarre e rendere i selvatici più facilmente contattabili, unita alla disponibilità da parte delle aziende a favorire l’efficacia dello sforzo venatorio tramite la realizzazione di adeguate strutture di appostamento, potrebbe consentire un più rapido e completo raggiungimento degli obiettivi del piano di prelievo.
In caso di specie che, come il capriolo, sono più strettamente legate ad un territorio ben definito, una adeguata scelta delle specie vegetali da seminare o da impiantare potrebbe inoltre creare fonti trofiche alternative e ridurre la pressione sulle colture da reddito. Ma in tutte quelle realtà in cui l’azienda agricola svolge anche attività agrituristiche, un ben più importante vantaggio derivante da tale collaborazione potrebbe essere rappresentato, dalla possibilità per l’impresa agrituristica di utilizzare le carni provenienti dagli animali abbattuti direttamente al proprio interno attraverso la cessione volontaria da parte dei cacciatori.
Questo consentirebbe di trasformare il bene “selvaggina” in un prodotto alimentare in grado di accrescere la multifunzionalità aziendale e conferire tipicità all’impresa attraverso la somministrazione diretta o la vendita di prodotti trasformati. Ciò presupporrebbe però l’adeguamento delle disposizioni vigenti relative alle modalità di effettuazione del prelievo venatorio e la definizione di una nuova disciplina che preveda la formazione di cacciatori in grado di applicare norme specifiche in materia di igiene degli alimenti di origine animale (come quelle previste dal regolamento CE 853/2004) oltre all’organizzazione di strutture per la raccolta e la lavorazione delle carni di selvatici. Potrebbe cioè essere ipotizzato un percorso completo per la valorizzazione delle carni di fauna selvatica avente come obiettivo quello di realizzare una filiera agro-turistico-alimentare a tutto vantaggio sia dei cacciatori che delle imprese agricole.
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