L’argomento non è nuovo. Chi mi segue sulle pagine di Diana – non dirò con falsa modestia manzoniana dieci lettori, perché fortunatamente sono un poco di più – riconoscerà questi miei pensieri perché ho avuto occasione di esprimerli già in altre occasioni.
L’oggetto è la nostra passione per la caccia. Lo stimolo per scriverne di nuovo il fatto che sono impossibilitato a dargli sfogo.
Uno stupido quanto fastidioso incidente, una banale storta, come si dice normalmente, mi ha infatti bloccato proprio all’inizio del più bello della stagione di caccia.
Così, mentre mi struggo al pensiero di birbi fagiani sfuggiti alle sfuriate del primo mese di caccia e che ora mi farebbero divertire a tentare – che non sempre ci si riesce, ma proprio qui sta il bello! – di mettergli il sale sulla coda; mentre sogno di buttate di beccacce, che hanno cominciato come si deve a popolare i boschi; mentre mi sembra impossibile di non essere a una posta ad aspettare l’irrompere sulla scena di un nero cinghiale con l’adrenalina a mille per la canizza dei cani… ecco, che non mi rimane altro che pensarci, alla caccia. Ben poca consolazione al non poterla esercitare, in realtà.
Parziale consolazione l’ultima uscita, con il cane che mi ha appena riportato il fagiano proprio un attimo prima che un piede in fallo mi fermasse per un po’.
Ne ho incernierati tanti di fagiani, in questi decenni di caccia. Quanti nemmeno me lo ricordo, anche se volendo potrei dirvene il numero preciso perché me li sono sempre segnati tutti.
L’importante però è che per ognuno, sempre, anche fosse stato l’ultimo “pollo di stia” della peggiore agrituristica del mondo, ho sempre avuto il massimo rispetto.
E così per tutti gli altri animali sacrificati all’altare della mia passione. E ogni volta, per ognuno di loro, dalla quaglia al cervo, è come fosse la prima e finché durerà questa emozione per me avrà valore continuare ad andare a caccia.
E sempre ho provato e provo gratitudine. In questo caso, l’ultimo scritto nella mia memoria, per il mio cane, che mi ha fatto emozionare con una ferma scolpita e una guidata là fin dove non avrei scommesso ci fosse qualcosa; per quel maschio variopinto, che regalandomi la sua vita ha fatto in modo che la mia si arricchisse ancora un po’. Di esperienza, di emozioni, di felicità per il bel tiro…
Piccole cose quasi inutili? Forse… Ma per me, e per tanti che la pensano fortunatamente come me un tesoro inestimabile.
E in fondo, dietro a tutti gli altri pensieri, un sentimento di gratitudine soprattutto per chi o cosa che ha fatto sì divenissi cacciatore. Doveva essere scritto evidentemente, perché nella mia famiglia, anche questo l’ho detto più volte, nessuno andava a caccia.
Non ho avuto un nonno che mi iniziasse ai segreti di passo e richiami o che mi facesse caricare cartucce sul tavolo di cucina nelle sere precedenti la caccia. Mio padre non mi ha mai svegliato prima del sorgere del sole per accompagnarlo per campi e boschi resi magici da bruma e galaverna. Entrambi, in questo ruolo, mi sono mancati.
Dio solo sa quanto, e quanto ancora oggi quando sento i racconti di chi ha potuto condividere questa passione con gli affetti più cari non provi rammarico e, ma sì confessiamolo, invidia.
Eppure, in un modo o nell’altro, da qualche tuttora sconosciuto e lontano avo i geni del cacciatore devono essere in qualche modo arrivati.
E così, fra la curiosità di chi, appunto, non capiva cosa mi spingeva, non appena ho potuto, sono entrato a far parte della schiera dei fedeli di Diana. Prima intesa come nume tutelare della caccia, poi, guarda tu che film è la vita, alla rivista omonima, facendo della caccia addirittura la base del mio lavoro e il mio principale impegno.
Un impegno che non sempre è facile e che spesso mi porta a scontrarmi con quanti non solo non ci comprendono, ma farebbero di tutto per farci scomparire.
E così, altrettanto spesso, mi trovo a giustificare il mio andare a caccia con motivazioni etiche, sociali, gestionali, scientifiche e via di questo passo.
Non sono il solo, a dire il vero e lo stesso atteggiamento lo noto sia in quelli che possiamo definire “addetti ai lavori”, sia in tanti cacciatori.
E così, giustificandoci, quasi ce ne vergognassimo, perdiamo di vista il motivo più intimo, ma certo più vero, del perché cacciamo: la passione.
Forse come tanti altri aspetti della nostra vita, per mille cause diverse, anche la caccia ha finito col perdere – anche se fortunatamente non per tutti – un po’ della sua magia, divenendo vittima un po’ dell’abitudine, dello scontato, del superficiale.
Fermiamoci a riflettere un attimo e cerchiamo di riportare il tutto nella giusta luce che merita.
E in questo momento in cui si è riacceso forte il dibattito sull’attività venatoria, sulle sue regole e sui suoi diversi ruoli, troviamo anche il coraggio di dire che andiamo a caccia perché ci piace, perché ci dà gioia!
Abbiamo il coraggio di dire che aspettare l’alba al capanno aspettando che la batteria dei richiami saluti il nuovo giorno col suo concerto, inseguire la beccaccia nel bosco dietro al cane, fare buio nelle lunghe sere d’estate aspettando il capriolo o qualsiasi altra caccia pratichiamo, che tutte sono belle e degne di essere vissute e difese, sono cose che facciamo perché rendono la nostra vita degna di esser vissuta.
Poi è bene ed è sacrosanto che la caccia abbia anche tutti gli altri aspetti che sappiamo e che il nostro ruolo di gestori lo facciamo e lo facciamo anche bene. Le due cose non sono fra loro contrastanti.
Ma a caccia prima di tutto si va per il brivido che ho provato lisciando le penne di quel maschio prima di riporlo nella carniera. Lo stesso brivido che come me provano altre centinaia di migliaia di cacciatori, accumunati dalla stessa identica passione anche se declinata in decine di forme diverse. Viva la caccia e come sempre «In bocca al lupo»!