G iorni fa un gorilla è stato abbattuto nello zoo di Cincinnati per salvare un bambino di 4 anni, caduto accidentalmente nel suo recinto. Harambe, questo il nome della femmina di 17 anni, avrebbe fatto male al bimbo? Forse no, ma il rischio era troppo elevato. Ed il personale dello zoo non poteva rimanere a guardare. Prima ancora in un altro zoo in Cile erano stati abbattuti due leoni, questa volta per salvare un aspirante suicida che aveva deciso di finire i suoi giorni sbranato dalle fiere. In entrambi i casi sono insorti gli amanti degli animali, tanti, tantissimi amanti degli animali. Qualcuno di loro si è addirittura chiesto perché considerare più importante la vita di un bambino rispetto a quella di un animale. Perchè appartenente alla nostra stessa specie, per esempio? Non c'è dubbio alcuno: avrebbe fatto la stessa cosa il gorilla nei nostri panni, se un piccolo fosse finito nelle grinfie di uno di noi. E' il dna che spinge alla conservazione della propria specie, non si sfugge. Come è il dna che spinge l'uomo a nutrirsi di altri animali, uccidendoli o facendoli uccidere negli allevamenti. La morte degli animali per mano umana ormai per molti è diventata una colpa inconfessabile, un tabù per la società moderna, che ci distanzia anni luce da quella società contadina da cui veniamo tutti, durata secoli e scomparsa pochi decenni fa. L'abbattimento, che avvenga in uno zoo, in un allevamento o in ambiente selvaggio, è sempre cosa mal digerita dall'opinione pubblica. Non si riesce ad accettare che, nella visione di insieme, può essere necessario e ineluttabile. Naturale, addirittura. Lo è per esempio quando si tratta di gestione faunistica. Come spiegarlo però ad un pubblico tanto sensibile alla sorte di qualsiasi animale?
Un interessante opuscoletto dal titolo Comunicare la fauna (redatto dall'associazione Teriologica Italiana dell'Università dell'Insubria), rende atto dei numerosi sforzi che il mondo scientifico porta avanti per “rendere comune”, ovvero comunicare democraticamente i concetti basilari della scienza faunistica, intesa come quell'insieme di azioni che occorre compiere per il bene comune e per garantire un certo equilibrio ambientale. Al pari di argomenti chiave come possono essere inquinamento atmosferico, alimenti transgenici e veleni nell'agricoltura, quello di una corretta conoscenza sul capitale biologico che popola i nostri boschi è considerato un diritto/dovere del cittadino. La cosiddetta “cittadinanza scientifica” indica infatti il principio secondo cui le decisioni sull'applicazione delle conoscenze scientifiche devono essere prese su base democratica, dato che la collettività deve essere in grado di cogliere tutte le opportunità offerte dallo sviluppo delle conoscenze e di minimizzare rischi ed effetti sociali indesiderati. Presupposti da cui partire, insomma, per confrontarsi su terreni comuni.
Da questo punto di vista in Italia forse siamo ancora ai nastri di partenza. Grazie anche ad una schiera di giornalisti impreparati (o strumentalmente preparati), riusciamo a farci pochissime domande. A credere che le volpi siano incapaci di razzie a tappeto nei pollai (la vicenda dell'Oasi di Spinea lo dimostra), a rassegnarci alla presenza di tanti animali “nocivi”, come la nutria e i cinghiali, senza fare troppe domande. A forza di ripeterlo crediamo che sia realmente fattibile catturarli uno per uno per sterilizzarli se sono troppi. O trasferire questa o quell'altra specie in soprannumero in altri luoghi. Argomenti come questi vengono quasi sempre tirati in ballo quando c'è un problema legato alla fauna. Gli animali smettono di essere animali e diventano una sorta di proiezione fantastica. Visti come entità incapaci di fare del male ad altri animali, all'uomo o all'ambiente. Assumono addirittura nomi di persona (l'orso Francesco, l'ibrido Luce, il cucciolo di lupo Ulisse, ecc., solo per citare i più recenti). Insomma, visti i facili consensi, i mass media sembrano incapaci di parlare di animali senza imbastirci sopra storie che devono per forza incantare ed emozionare, sacrificando ogni barlume di razionalità.
L'eradicazione delle specie invasive, l'allevamento in cattività di esemplari di specie selvatiche, gli effetti degli erbivori sulle coltivazioni sono pochi illuminanti esempi su cui il dialogo tra scienza e popolazione è fondamentale, per permettere all'approccio scientifico stesso di sopravvivere. La scienza ha bisogno di comunicare per legittimarsi, dice l'opuscolo Comunicare la fauna, per reperire fondi, per conseguire consenso, per sopravvivere dagli attacchi della società. Combattere l'”effetto Bambi”, ovvero una forma di amore per ciò che ci fa tornare bambini (come lo definisce la ricercatrice e divulgatrice scientifica Lisa Signorile) e rifuggire alla schizofrenia che contraddistingue il rapporto della nostra società con la natura, che tendiamo ad antropizzare, significa impedire che aspetti sociali e politici confliggano con le scelte di conservazione e gestione.
Il problema in Italia è particolarmente radicato anche a causa dell'antiscienza che ha attecchito in gran parte dell'ambientalismo nostrano. Secondo la sopracitata Lisa Signorile (che ha un master in Forest Protection and Conservation e si occupa di genetica studiando in particolare le popolazioni di scoiattoli alieni e invasori), “quasi tutte mostrano una deriva poco scientifica e molto animalista, almeno in alcuni elementi tollerati dalle associazioni, che alla fine va a detrimento di tutti. E’ un po’ come la storia dei musulmani e jihadisti, non tutti gli ambientalisti sono irresponsabili liberatori di visoni, ma sarebbe bello se questi elementi venissero allontanati e condannati apertamente dagli altri, per evitare confusioni”. Evidentemente ciò non accade. Altra mela marcia è la classe politica italiana, che, sempre citando la ricercatrice di National Geographic, “ha un’incredibile carenza di persone di scienza al suo interno che possano agire da mediatori per prendere decisioni sulla base di dati e non di impressioni, e le consulenze scientifiche sono spesso molto burocratizzate. Oltretutto i politici decidono spesso in base all’umore dell’elettorato, che si basa a sua volta su scelte emotive, anche per la difficolta’ di accedere a dati scientifici, che sono in inglese, a pagamento, scritti in un linguaggio strano e visti con diffidenza. Questo almeno per quanto riguarda questioni viste come “non essenziali”, come la protezione di certe specie, con risultati spesso discutibili”.
Se addirittura il massimo ente scientifico italiano in fatto di ambiente e animali (Ispra), è accusato di un certo andazzo filoanimalista, qualche domanda occorrerà porsela. Oltretutto abbiamo un Ministro che pur di sottrarre una decina di giorni di caccia, lecitamente e scientificamente argomentati dalle Regioni, compie delle leggerezze inammissibili, esercitando incautamente il potere sostitutivo previsto dalla Costituzione solo in caso di situazioni di emergenza. Ma questa è tutta un'altra storia.
Cinzia Funcis |