L’attuale congiuntura della caccia più o meno denuncia una situazione che è lo specchio di quella ormai incancrenita del paese. Lobby e corporazioni in sempiterne relazioni conflittuali, che malgrado una crisi epocale insistono nel reiterare i propri errori. Ognuno sbaglia per sé, ma tutti insieme combinano un disastro.
In questi ultimi mesi, per la caccia, stiamo assistendo a una superproliferazione di attivismo collegato alle deroghe. Come se la passione più antica del mondo la si potesse praticare solo in via “eccezionale”. Si, eccezionale, perché questo è il significato che si cela dietro il termine “deroga”.
Ma, questo è, e pertanto tutti a combattere, di qua e di là, associazioni, sindacati, partiti, politici e politicanti (che non mancano), tecnici e scienziati, spesso improvvisati, intorno a peppole e fringuelli, storni e cormorani, pispole e passeri, piccole quantità, ricorsi, dinieghi, sentenze, infrazioni vere e presunte, scoop, bufale, balle, panzane.
Tutto gira intorno a un articolo della direttiva comunitaria cosiddetta “uccelli”, perché tende a dare corpo alle eccezioni alla regola, in funzione di realtà geografiche, territoriali, culturali, diverse da un paese all’altro della ormai larghissima consociazione di stati. Ventisette, per la precisione, diversi dei quali, i più recenti di adesione, questa direttiva non l’hanno ancora acquisita nel loro ordinamento e chissà quando ormai l’applicheranno, visto che è vecchia, e corre voce che si stia per dare inizio a un percorso legislativo per metterla in cantina.
Ma cerchiamo di stare ai fatti. In Italia questa direttiva è operante da anni. Da quando ha cominciato a palesare i suoi effetti, non c’è stato anno che non ne conseguisse un problema. Con gli anticaccia (ormai non è più neanche il caso di chiamarli ambientalisti, viste le posizioni sempre più indulgenti a un animalismo populista, volto esclusivamente a fare cassetta) che con i soldi dei contribuenti ricorrono al Tar, al Consiglio di Stato, alla Corte Costituzionale, al Parlamento, alla Commissione Europea, al Tribunale dei diritti dell’uomo (qualcuno, sotto sotto, anche al Papa), e con i cacciatori, disuniti, che si adoperano strenuamente per difendere posizioni, storie di popolo, tradizioni.
Da una parte, gli anticaccia che non vogliono riconoscere nemmeno una guida interpretativa varata in Europa con il beneplacito del massimo organismo ambientalista sovranazionale. Dall’altra cacciatori indaffarati a sollecitare disposizioni e produrre documenti tecnici e scientifici, tanto meritevoli d’attenzione quanto inadeguati soprattutto per la mancanza di coordinamento.
Prendiamo ad esempio l’aspetto dei dati statistici su cui – secondo le disposizioni comunitarie - si basa la produzione delle norme locali (leggi o delibere regionali). L’ISPRA, che non è altro che il vecchio INFS, si sa, non solo tiene conto dei famigerati Key Concept, che qualche dubbio lo pongono a chi il fenomeno migratorio lo conosce davvero, ma pretende di dare anche interpretazioni superconservative, che sinceramente denotano scarsa consapevolezza di come stanno veramente le cose. Senza contare che quando, questi signori, non sanno che pesci prendere (ma non erano uccelli?), si salvano in corner, dichiarando senza pudore che non sono in grado di fare il loro lavoro, guadagnando in questo caso denunce e reprimende anche da Regioni che si sono ribellate a quest’andazzo. La cosa che più risalta è come mai qua da noi si pretenderebbe di ridurre o impedire la caccia a specie e in periodi, che altrove, in tutto il bacino del Mediterraneo, sono considerati assolutamente in modo diverso e comunque non a rischio. Eppure anche là, in Grecia, in Francia, in Spagna (lasciamo stare il caso di Malta), ci sono i centri di ricerca, ci sono gli organismi scientifici che sovrintendono al controllo della ordinata produzione dei regolamenti.
In questi ultimi mesi, purtroppo ancora alla spicciolata, oltre alle proteste, si sono registrate anche diverse iniziative tese a dimostrare che – se si vuole – i dati ci sono, e sono dati che smentiscono clamorosamente la gran parte del catastrofismo imperante. Singoli appassionati, associazioni, locali e nazionali, riconosciute e non, generaliste e di categoria, ma anche Enti ed Istituti di Ricerca con tanto di pedigree, hanno prodotto e sommerso l’ISPRA di tanti di quei dati e di tante di quelle dimostrazioni che nessuno può più ignorare. A conferma che non sono i dati che mancano, ma la volontà nel volerli utilizzare. Una riprova inoltre, che se parlamento, governo, regioni e altri enti preposti, cercano davvero una fonte autorevole possono benissimo rivolgersi anche altrove, visto che sull’ISPRA per sua stessa ammissione, dell’ISPRA, non possono fare conto, checché ne dicano gli uffici di Bruxelles, male ispirati dal solito topolino malizioso, e da quel cinghialone che è arrivato lì senza nemmeno sapere il perché c’è arrivato.
Un suggerimento. Visto che i dati abbondano, e gli organismi tecnici e scientifici pubblici o privati che siano abbondano pure, perché qualcuno non fa in modo di coordinarli e di razionalizzarne il lavoro?
Per evitare doppioni e ottenere ulteriori dati da Cirsemaf, Uzi, Osservatori regionali, Uffici studi di associazioni etc, basterebbe un solo addetto ai lavori che avesse un po’ di buona volontà e li mettesse in rete fra loro.
Qualcuno ci vuol pensare?
Vito Rubini