Nelle prossime due settimane a Copenaghen si svolgerà il tanto atteso e discusso vertice mondiale dell'Onu sul clima (7 - 18 dicembre). Se le promesse degli ultimi giorni si concretizzeranno con la firma di un documento vincolante, l'evento potrebbe imporsi come punto di partenza finalmente efficace al ristabilimento di equilibri infranti riguardo alla condizione climatica e ambientale (ormai, sembra, sull'orlo dell'irreversibilità).
L'accordo vincolato avrebbe come conseguenza più o meno diretta quella di dare vita ad una “rivoluzione” nel panorama economico; spostando forse definitivamente l'asse del guadagno su nuovi parametri che contemplano anche e soprattutto il benessere del pianeta e la sostenibilità. I grandi protagonisti dell'economia mondiale, USA in testa ma anche Cina e non ultima la nostra Europa, hanno infatti azzardato ipotesi di riduzione dei gas di scarto che vanno dal 17 al 50 per cento entro il 2050. In quest'ottica si inserisce l'incremento della ricerca e dei relativi investimenti nel settore pubblico e privato per lo sviluppo su larga scala di fonti energetiche alternative a petrolio e carbone.
La scelta di una o l'altra dipende da una vasta gamma di variabili e dalla loro combinazione: solo per citarne alcune, giocano un ruolo fondamentale fattori come: la conformazione geofisica del territorio, il grado di urbanizzazione, la disponibilità delle materie prime necessarie ma anche i costi effettivi e la possibilità di reperire gli investimenti. Ogni Paese sta studiando a fondo la questione ed alcuni hanno già attuato, o sono in procinto di farlo, scelte più o meno vincenti e innovative. C'è chi sta studiando il modo di estrarre energia dalle alghe, chi punta tutto su batterie autoricaricabili, chi ipotizza l'istallazione di pannelli solari nelle zone desertiche e persino sulla luna.
Soffermandoci sulle energie generate dallo sfruttamento di elementi naturali e rinnovabili come sole, acqua, vento, biomasse e geotermia, non si può non considerare il loro bassissimo impatto in termini di inquinamento diretto, anche se per ognuna di queste in realtà già operanti in forma ancora ridotta, si apre il terreno alle più disparate obiezioni che rimettono in gioco il problema dell'impatto ambientale. Occorre quindi tenere in considerazione che per esempio finora l'istallazione dei pannelli necessari a produrre l'equivalente dello 0,5 per cento del fabbisogno mondiale occupa 15 mila ettari di terreno (pari a 20 mila campi da calcio); stesso discorso vale per l'eolico (che peraltro è fattibile solo in zone interessate da venti molto forti), per la produzione di energia pari allo 0,3 per cento di quella utilizzata nel mondo, occorrono infatti pale eoliche disposte su 720 km di terreno. Spreco di territorio anche per le biomasse che necessitano coltivazioni pari a 30 mila km quadrati per produrre solo il 4 per cento del fabbisogno mondiale. Limiti simili li ha la geotermia, che seppur molto conveniente e pulita, nel 2007 ha coperto soltanto lo 0,2 per cento della richiesta energetica.
Puntare sulle rinnovabili è necessario ed intelligente ma se si dà una scorsa ai numeri sovraesposti ci si accorge che serve ben altro per soppiantare le fonti energetiche che finora hanno dominato il mercato dell'energia. Il 38 per cento dell'energia prodotta nel 2007 si deve infatti al petrolio, il 25 per cento al carbone e il 23 ai gas estratti dal sottosuolo. Per raggiungere queste cifre con le sole energie rinnovabili avremmo bisogno di un pianeta di riserva. In attesa di colonizzare Marte e la Luna e di istallare lì i nostri pannelli solari, c'è chi vede un'alternativa pulita ed eco–sostenibile nel nucleare. In Italia si è tornati a parlarne da quest'anno, da quando il Governo Berlusconi ha sancito per legge (23 luglio 2009) la possibilità di aprire nuove centrali, scavalcando di fatto l'esito del vecchio referendum del 1987 con il quale i cittadini italiani avevano rinunciato a differenza di molti altri paesi europei, alla possibilità di sfruttare l'energia atomica.
Su questa questione l'opinione pubblica è divisa su due fronti. Dalla parte del no pesano le considerazioni sul rischio, più o meno consolidato nella popolazione, che si possa verificare un incidente grave, una fuoriuscita incontrollata di radioattività, causata per esempio da uno dei moltissimi terremoti con cui il nostro paese deve fare i conti; a ciò si aggiunge la questione dello smaltimento delle scorie e le considerazioni relative agli alti costi per l'avvio e il funzionamento di una centrale a dispetto dei bassi ricavi prospettati nel futuro. Inoltre l'Italia non dispone di uranio, necessario per la fissione e delle enormi quantità di acqua necessarie al raffreddamento del reattore, a differenza per esempio della vicina Francia.
Dall’altra parte sono tuttavia in aumento gli ambientalisti favorevoli all'uso dell'energia atomica. Uno su tutti: James Lovelock, l'ideatore di “Gaia”, una teoria che concepisce la Terra come un unico organismo vivente, sulla quale si basano un gran numero di movimenti ecologisti, tra i quali anche Greenpeace, in passato tra i più fermi oppositori al nucleare. Il nucleare per questi ambientalisti rimane l'unica forma di energia in grado di sostituire efficacemente i combustibili fossili senza produrre gas nocivi. Sul fronte dei costi Patrick Moore (tra i fondatori di Greenpeace) ricorda uno studio comparativo del 2008 pubblicato da Brattle Group per conto dello stato del Connecticut che dimostra che di contro agli alti costi paventati per l'avvio della centrale, essa produce in realtà l'energia meno costosa al mondo. Ancora secondo Moore è falso che le scorie siano pericolose per migliaia di anni. Se trattate nel giusto modo, dopo 40 anni manterrebbero solo un millesimo (o meno) della loro pericolosità.
A rispondere sul rischio di catastrofi nucleari a vent'anni da Chernobyl, interviene anche l’ oncologo Umberto Veronesi (ha da poco lanciato la fondazione “Il progresso delle scienze”), il quale sostiene che il rischio è oggi ridotto al minimo, grazie allo sviluppo di nuove tecnologie che non permetterebbero il ripetersi di quello che a Chernobyl è stato causato da un errore umano.
D'altra parte, tornando sulle ragioni del no, non si può non dare atto alle riserve del premio Nobel per la Fisica Carlo Rubbia, che in questi giorni ha avanzato alcune domande a cui occorre dare al più presto risposta se si vuole seriamente pensare al nucleare e tranquillizzare i cittadini italiani: "Si sa dove costruire gli impianti? Come si smaltiranno le scorie? Si è consapevoli del fatto che per realizzare una centrale occorrono almeno dieci anni? Ci si rende conto che quattro o otto centrali sono come una rondine in primavera e non risolvono il problema, perché la Francia per esempio va avanti con più di cinquanta impianti? E che gli stessi francesi stanno rivedendo i loro programmi sulla tecnologia delle centrali Epr, tanto che si preferisce ristrutturare i reattori vecchi piuttosto che costruirne di nuovi? Se non c'è risposta a queste domande, diventa difficile anche solo discutere del nucleare italiano".
Sul fronte ambientale la battaglia oggi si gioca in gran parte sul settore energetico. Non escluso il risparmio nei sistemi di produzione e consumo, anche grazie a diversi e più morigerati stili di vita, che potrebbero davvero fare la differenza. Si tratta dunque di riflettere attentamente e portare questa ed altre importanti discussioni fuori dalle aule parlamentari, creando e favorendo sensibilità che sollecitino i nostri politici a ponderare scelte importanti che riguardano il futuro economico, ambientale e sociale di tutti noi. Voi che ne pensate?
C.F.