Io, a Pasqua, l'agnello l'ho mangiato. E con grande gusto. Davvero! Burroso, saporito, con le patatine novelle di contorno. L'ho gustato, forse ancora di più del solito, dopo l'invereconda pantomima che ha invaso tutte le televisioni nella settimana di passione. Con un vecchietto imbambolato, che accudiva un pet-toy, accudito da una BB de' noantri, improvvida valchiria dalla chioma rosso sangue.
Una disdicevole operazione, a mio parere - copiata anche da altri/e papaveri/e con targa istituzionale - che odorava di maquillage elettorale anche agli olfatti più adusi a tutto. Anche a chi ancora aguzza l'udito in attesa di telefonate profetiche. I primi sondaggi post pasquali non sembra gli abbiano arriso. Il che dimostra, a mio parere, che la gente ha capito l'ennesima presa di giro di una politica, ormai senza pudore e senza confini - da destra a sinistra, con la destra che si fa sinistra e la sinistra che non sa più dove stare - una politica assurta a pura autoreferenzialità, con sultanetti e cacicchi impegnati a coltivare i propri personali clientes, aldilà delle ideologie, aldilà della sempre più fitta schiera di gente che soffre la fame.
La caccia, in questo quadro, è come al solito merce di scambio. Oggi fatta bersaglio anche da chi ha scoperto che si può fare guadagno con l'animalismo più becero. Si chiede la mutua per quindici milioni di cani e gatti (gli animali domestici in Italia sono sessanta milioni, fonte Eurispes), ma si fanno orecchi da mercante al cospetto degli italiani sotto la soglia di povertà assoluta, una massa che si aggira ormai intorno ai cinque milioni, purtroppo.
Ma, allora, che futuro può avere la caccia? Scorrendo a ritroso l'evoluzione di una società come la nostra, consumistica, ex rurale, sempre più orientata a inurbarsi, perdendo di conseguenza quel rapporto millenario con la campagna, i suoi riti, le sue verità, ci si accorge che anche i nostri, di riti, hanno bisogno di essere riconsiderati. Culturalmente, in primo luogo, perchè altrimenti è difficile farsi capire da chi non ha più alcuna cognizione di ciò di cui vorremmo parlare. Anche perchè l'agricoltura non è più agricoltura, ma industria. Tanta tecnologia, poco sudore, malgrado ci sia ancora chi fa uso di turpi commerci di braccia per incassettare frutta e verdura "del contadino".
Con le campagne sconquassate, avvelenate, inospitali, anche la selvaggina ne sta alla larga. Si salva quella che frequenta i boschi. Fauna alata in particolare, lo dice la Lipu. Ungulati, non solo cinghiali, che stanno diventando un problema, ma che nello stesso tempo fanno gola perchè rappresentano un discreto gruzzoletto per chi ne riempie i frigoriferi. Guai a toccarli, però, anche questi. Sono ormai un pasto garantito per il lupo, che nel Belpaese ha raggiunto cifre record a livello modiale. Neanche nella steppa ce ne sono così tanti. Nessuno ci ascolta, quando cerchiamo di spiegarlo alla gente, tantomeno i politici che, immancabilmente, danno più retta alle squinzie salottiere che a noi, ormai ridotti di numero e conseguentemente detentori di un sempre più scarso valore elettorale.
Ci dovranno pregare in ginocchio, si dice, quando non sapranno più come fare per arginare l'invasione e i danni dei cinghiali che ormai razzolano in città, anche grandi, come Genova e Roma. E con i lupi che, fra una cinghiala imbufalita e una pecora mansueta, preferiscono la seconda e non fanno complimenti a frequentare anche cortili e pollai, in concorrenza con volpi e faine. Sarà questa la nostra rivincita? Forse. Ma non può bastare.
Non può bastare, perchè ci collocherebbe in una posizione servile, strumentale. Poco dignitosa. Perdente.
La caccia dovrà tornare, giocoforza, un'attività elitaria, dice qualcun altro. Torna d'attualità - ma quando mai se n'è andata - l'abrogazione dell'842. Probabile. Ma anche qui, la vedo dura. L'avvento della 157, legge indissolubilmente legata alla vittoria del referendum, ha sancito due principi. Il primo - un regalo al populismo della sinistra - che la selvaggina (fauna selvatica) è patrimonio indisponibile dello Stato. Il secondo, che si nasconde nella costituzione degli ATC: di fatto una gestione collettiva, sostanzialmente privatizzata, visto che ad amministrarli, più o meno bene, o male, più o meno esplicitamente, sono le categorie, con gli agricoltori che si palleggiano fra cacciatori e ambientalisti, cercando di trarre il meglio dai bisticci fra gli uni e gli altri.
Un pensiero rivoluzionario ci vuole, dunque. Un colpo d'ala, come ebbe a proporre - evidentemente inascoltato - un leader venatorio della prima repubblica, propugnatore anche di una visione ambientalista della caccia. Che potremmo consolidare, speriamo, se daremo respiro alla componente femminile, fino ad oggi tenuta a margine, come nella società, per una ormai anacronistica distinzione di ruoli, e ai giovani, molti dei quali - lasciati per troppo tempo al loro destino da genitori inadeguati e impauriti da un mondo ritenuto ostile - non sono stati temprati a sufficienza nella palestra della vita. Solo loro, donne e giovani, potranno dare sostanza a certe nostre aspettative, con un cambiamento radicale di paradigma, affrontando i problemi delle nostre malandate campagne, prima ancora che versare lacrime amare per un paradiso perduto della caccia, che sarà di nuovo alla nostra portata solo se riusciremo a proporci come i veri, e forse gli unici, ambientalisti di fatto.
A perenne monito anche per chi perse la sua gioventù dando retta a uno stuolo di falsi profeti, che propostisi allora come (pseudo) paladini della caccia finirono a festeggiare la Pasqua con pane e cicoria.
Vito Rubini