Nella sempiterna gestione dell'emergenza, tipica di questo periodo, anche il mondo della caccia difetta di iniziative di lungo respiro, le uniche utili a rigenerarlo e garantirne un futuro nel medio e lungo periodo. La trasformazione rapida della società, anche italiana, presuppone un collegamento stretto alle avanguardie, per percepire e anticipare i cambiamenti.
Lo strumento più adatto per quest'azione sono i giovani, che non brillano per la loro presenza nelle schiere dei cacciatori. La gerontocrazia diffusa che alberga nelle nostre classi dirigenti, trova un buon terreno di coltura anche nella caccia. Le nostre associazioni venatorie, pur sorrette anche da quarantenni/cinquantenni, rispecchiano l'andazzo, e a volte fanno fatica a esprimere idee innovative. Pur tenendo conto di questo, è irrimandabile un'azione di sollecitazione sull'insieme dei soggetti interessati (dirigenze venatorie, agricole, produttive, ambientaliste, istituzionali) per favorire un clima più disteso che favorisca un'evoluzione positiva, un processo di riavvicinamento fra i vari soggetto interessati, l'assunzione di responsabilità che andando per gradi comprenda tutta la problematica. La presa di coscienza, insomma, della necessità di riformare il contesto normativo e comportamentale, per risolvere un problema, quello del territorio, che altrimenti è condannato ad aggravarsi ulteriormente.
Falliti tutti i tentativi di costituire tavoli di portatori d'interessi, occorre mettere mano a un nuovo progetto per rimettere in moto un meccanismo che si è miseramente arenato, magari attivando un soggetto terzo.
Abbandonando l'idea delle ammucchiate a volte evidenziatesi innaturali, sarebbe bene optare per un primo approccio interno. Dato per acquisito che la conflittualità interna non fornisce a nessuno alcun vantaggio duraturo, bisognerà prima di tutto convincersi che, nel rispetto dei diversi punti di vista, è indispensabile raggiungere una sintesi preliminare che salvaguardi gli interessi dell'intera categoria. Prima di tutto, quindi, salvaguardare i principi generali su cui concordare, compreso un patto di rispetto reciproco; dopodichè entrare nel merito delle questioni particolari, ovvero dei punti inderogabili, su cui non ci potrà essere mediazione. E, solo successivamente, forti di un'intesa, magari formalmente condivisa, si potrà dare la disponibilità ad aderire all'approccio successivo, che tenendo conto di sensibilità diffuse (frutto di altre culture e di diverse responsabilità), arrivi a elaborare una piattaforma con il mondo agricolo. Un passaggio cruciale, che dovrebbe fare la sintesi fra i reciproci interessi di cacciatori e agricoltori, per proceder infine a riflessioni più estese che coinvolgano le istituzioni e i territori (rappresentanze ambientaliste comprese, se lo vorranno).
Un percorso del genere comporta una navigazione a vista, a modulazione variabile, che abbia ben chiaro l'obiettivo: i cacciatori italiani sono un patrimonio sociale, culturale ed economico che nel suo processo rigenerativo va salvaguardato.
Un approccio diverso, quindi, che superi l'attuale dicotomia sempre più radicalizzata fra chi vorrebbe tornare al passato (ante 157) e chi spinge per ridurre e contenere il fenomeno venatorio, proponendo in teoria principi conservativi ma provocando inevitabilmente a una (pericolosa?) deriva verso la privatizzazione totale della caccia. O meglio, del patrimonio faunistico e del territorio. Non si tratta più ahinoi soltanto del proprietario terriero che intende sfruttare a fini di caccia la selvaggina che vive o transita sui suoi terreni, no, non è più solo lui; sta avanzando anche e con protervia il borghesotto (proprietario o temporaneamente affittuario) che nel week-end non vuole intrusi nel cortile della sua casetta di campagna (fenomeno ormai noto col nome di NIMBY: Not In My BackYard, non nel mio cortile). Sono reazioni che in qualche modo necessitano di una risposta. E se il mondo va come deve andare, ovvero la società contemporanea non implode trascinando con sé anche la caccia e tutti i legittimi interessi ad essa collegati, bisognerà girare pagina, valutare le diverse opzioni, tenendo conto dei nuovi e diversi interlocutori. In ogni caso, una deregulation totale non è ipotizzabile. Non ha riscontro nemmeno nelle proposte di legge più criticate, che giacciono ormai da anni - impantanate - nei due rami del Parlamento. E comunque, se non riusciremo a far percepire l'attività venatoria come qualcosa di ancora attuale, contemporaneo, il problema si consuma da sè: la media dell'età dei cacciatori è lì a confermarcelo. Solo se saremo in grado di rilanciare in un contesto più vasto, extravenatorio, i pur tanti valori positivi della caccia, si potrà pensare che la famiglia, la scuola e la società propongano con nuova attenzione un approccio simpatico verso la caccia, da parte delle giovani generazioni. E sono quelle che a noi mancano.
E per ora, dunque, nei confronti del mondo esterno, ma anche al nostro interno, prima ancora di affrontare gli argomenti relativi a specie cacciabili, tempi di caccia, modi di prelievo, quantità etc,, sarà importante adoperarsi per riacquisire su larga scala quell'assunto che un tempo, nella società contadina, era assolutamente condiviso. E cioè che la caccia, i cacciatori, sono un valore aggiunto per la consistenza del patrimonio faunistico nostrano. Anzi, che per tutti quelli che tengono a un patrimonio naturale integro, alla larga dai pericoli dell'odierno progresso, i cacciatori sono uno dei pochi baluardi su cui contare.
Ci riusciremo?
Enrico Parretti