Apprendo con non poco stupore che sette sorelle più animaliste ormai che ambientaliste, orbe peraltro di ben altre importanti affiliazioni, si sono costituite in laboratorio (Forum 394) per il rilancio della legge sulle aree protette, la 394 del '91, appunto. Ciò accade in un momento cruciale della vita del paese, dove a tutti si chiede lacrime e sangue per far passa' 'a nuttata. Ecco, in un momento del genere, c'è ancora chi pensa che i sacrifici tocchino a tutti, meno che a lui medesimo.
Perchè di questo si tratta, non di buoni propositi, che peraltro ci sono, nella carta dorata con cui si confeziona il pacchetto. Per rendersene conto, basta scorrere le richieste/proposte: Rottura di equilibri fra pubblico e privato negli enti di gestione (ovvero tra gli attuali enti di gestione e interessi particolari e privati), Rischio via libera ai cacciatori nelle aree protette (ai quali cacciatori si potrebbe affidare il riequilibrio delle specie in esubero, con rischio di depotenziamento dell'approccio ecologico), Nessun confronto sulla vera mission delle aree protette (non più aggiornata dal 200), Una questione di poltrone “verdi” (vero punto dolente, perchè [in caso di assenza di fondi pubblici, ma questo lo pensa il sottoscritto] legherebbe la gestione dei parchi all'attivazione di meccanismi di finanziamento attraverso royalties).
Con questo si reclama un percorso partecipato, approfondito e condiviso, in alternativa a una “riforma-lampo” come quella discussa in Senato. (Ma di cosa parlano? La proposta di riforma della legge sulle aree protette – Atto del Senato n. 1820 del 13 ottobre 2009 - approda in Commissione Ambiente in sede referente il 4 ottobre 2009; al 10 febbraio 2010 viene stabilita la scadenza per presentare gli eventuali emendamenti, regolarmente presentati da numerosi parlamentari anche di area ambientalista, posticipata al 2 agosto 2010 per altri eventuali sub-emendamenti, presentati altrettanto in abbondanza; in questo lasso di tempo – l'ultima seduta è stata il 7 marzo 2012 - si tengono ben 19 sedute nel corso delle quali vengono ascoltati tutti i cosiddetti stakeholders – cacciatori esclusi, ovviamente – compresi i rappresentanti delle associazioni ambientaliste, nessuna esclusa, con l'aggiunta dell'Ispra.
Tempi biblici, ad essere teneri, soprattutto se si pensa che il testo, così faticosamente prodotto, che ha ricevuto consensi anche di parte del mondo ambientalista, dovrà passare dall'aula e, se approvato, dovrà ricominciare un percorso altrettanto....”lampo” alla Camera dei Deputati. Dove le teste calde animaliste non mancano - qualcuno ricorda una certa Brambilla? - e dove il clima potrà farsi ancora più rovente, ove, evitata la chiusura anticipata della legislatura, la malcapitata proposta di riforma si troverà in balia della bagarre elettorale. Con molti, moltissimi che faranno a gara a chi la spara [?] più grossa per accaparrarsi la propria piccola dose di simpatizzanti.
Non mancherà pertanto l'occasione di riaffrontare l'argomento. Purtroppo. Ma la notizia è troppo ghiotta per non cedere alla debolezza di fare qualche considerazione su quel “Rischio via libera ai cacciatori nelle aree naturali protette”.
Dunque. E' ormai dal 2009, e la coincidenza a parer mio non è casuale, che un coordinamento interuniversitario (il Cirsemaf: Centro Interuniversitario di Ricerca sulla Selvaggina e sui Miglioramenti Ambientali a Fini Faunistici; venti luminari venti) ha sancito senza ombra di dubbio che le aree protette sono la causa principale degli squilibri faunistici del nostro paese. Cosa, che aldilà della cupidigia più presunta che reale dei cacciatori, provoca danni ingenti e non più accettabili al patrimonio naturale, all'economia rurale, alla sicurezza e all'incolumità delle persone (frequentissimi incidenti stradali, con grave nocumento al portafoglio di ignari cittadini, ma anche lutti inaccettabili). Per gli smemorati, mi permetto di ricordare che nei documenti preparatori prodotti dai massimi esperti della materia in occasione della Conferenza toscana sulla caccia (13-14 febbraio 2009, Arezzo) tale realtà era oggettivamente dimostrata e portava alla convinzione delle autorità regionali (nella loro massima espressione di allora, il Presidente della Giunta Claudio Martini, certamente non inquadrabile fra le fila dei simpatizzanti della caccia) che era giunto il momento di “riportare la situazione a livelli sostenibili di densità delle presenze ed eliminare la possibilità di danni arrecati alle coltivazioni “attribuendo poteri straordinari alle amministrazioni provinciali per far fronte a situazioni locali di emergenza a tutela delle coltivazioni” attraverso una “cultura della prevenzione che deve articolarsi a partire dal divieto di foraggiamento dei cinghiali fino all'apertura di tutti i territori, comprese le aree a divieto di caccia, alla possibilità di intervento venatorio per l'abbattimento dell'eccesso di presenze. Accanto a questo deve essere sollecitata ed incrementata la partecipazione dei cacciatori di ungulati alla gestione della specie”.
Più chiaro di così!
Fu allora che si sancì, coralmente, il fallimento della politica dei parchi e soprattutto della politica ambientale sostenuta e imposta dalle associazioni ambientaliste nostrane. Perchè il problema non è – come si vorrebbe far crede alla solita opinione pubblica distratta – il problema non è solo il cinghiale (frutto – come dicono - di insensati ripopolamenti dei cacciatori), no, il problema riguarda proprio la cattiva impostazione della politica delle aree protette, diventate ormai delle sinecurae a spese dello Stato, dove proliferano indisturbati non solo l'irsuto abitatore della macchia, ma anche cervi, caprioli, daini, e pure colombacci, storni, che favoriscono la crescita incontrollata di altri predatori (qualcuno ha dimenticato il lupo? E la volpe?); senza dimenticare certe specie domestiche inselvatichite come i piccioni, e specie estranee alla nostra fauna come le nutrie, lo scoiattolo grigio, la tortora dal collare e chissà quante altre, se non si adotteranno per tempo provvedimenti basati sulla ragione piuttosto che sulle sempre più diffuse paturnie ormonali di una classe dirigente cosiddetta ambientalista, i cui danni gridano vendetta anche al cospetto del dio Pan.
E allora: bando alle chiacchiere. Si riconosca finalmente che come diceva Bartali, anche nelle politiche ambientali “gliè tutto sbagliato, gliè tutto da rifare”, e proviamo a capire e a far capire che la caccia, i cacciatori sono una risorsa e ancora di più lo possono essere per la loro esperienza, per la loro competenza, per la loro propensione a dedicarsi alla tutela del patrimonio naturale in maniera volontaristica, senza pesare sulla collettività, già ampiamente oberata di costi. Anche nella gestione dei parchi. E chi non è d'accordo, prima o poi, col tempo, capirà, se ne farà una ragione.
Roberto Vannacci