A lungo nella caccia si è andati avanti grazie ad un equilibrato mix di due ingredienti, che si sono temprati reciprocamente con efficienza ed equità: un’austera anarchia e un’intelligenza affettiva. Questi ingredienti, semmai oggi fossero ancora rilevabili, non sarebbero più sufficienti. Proprio perché dobbiamo cambiare quel mix, nel guardare a un auspicato rinnovamento non dobbiamo commettere l’errore di chi, indicando la luna con un dito, poi, si sofferma a valutare l’inclinazione del dito, perdendo la visione della luna, di fronte, e la sua rotazione.
Un simpatico libricino illustrato di Staino, pubblicato di recente, introduce il piccolo dizionario ambientalista, che disegna l’ambientalista come un individuo ironico, normalmente appartenente al mondo occidentale, di cultura medio alta, benestante, il quale, non avendo meglio da fare, infastidisce le persone perbene con assurde teorie comportamentali in nome di una non meglio definita tutela dell’ambiente. Questa definizione ironica è quella che noi abbiamo sempre percepito, sottovalutando, in realtà, un fenomeno, con la conseguenza che, oggi, troviamo, purtroppo anche al Governo, i nipoti di un modo di pensare l’ambientalismo che rappresenta, proprio, questa definizione. In una recente intervista pubblicata sul Corriere della Sera alla signora Brambilla, alla domanda sull’origine della sua vocazione ambientalista, lei risponde che, fin da piccola ha convissuto con cani, gatti, pecore e galline, che i pulcini pigolavano in soggiorno ed i conigli giravano nella sua stanza. Insomma, una concezione aberrante dell’ambiente.
Rispetto a ciò soccorre la lettura di un testo, sempre ironico, di un grande economista, Carlo Maria Cipolla, che ho letto qualche tempo fa, di recente ristampato, dal titolo Allegro ma non troppo. L’autore dice una cosa, che, a mio parere, evidenzia un grave problema culturale e rappresenta il motivo per cui il movimento della caccia non ha saputo intercettare i nuovi fenomeni dell’ambiente. Secondo Cipolla, “da Darwin sappiamo di condividere la nostra origine con le altre specie del mondo animale e tutte le specie si sa, dal vermiciattolo all’elefante, devono sopportare le loro dosi quotidiane di tribolazione. Gli esseri umani, tuttavia, hanno il privilegio di doversi sobbarcare un peso aggiuntivo, una dose extra di tribolazioni quotidiane causate da un gruppo di persone che appartengono allo stesso genere umano. Questo gruppo è molto più potente della mafia, è molto più potente dell’internazione comunista, è un gruppo non organizzato, che non fa parte di alcun ordinamento, non ha un capo, non ha un Presidente, non ha uno Statuto, ma che riesce ad operare in perfetta sintonia, come se fosse guidato da una mano invisibile. Questo gruppo - dice il nostro economista - è formato dagli individui stupidi – aggiungendo, poi, in maniera molto seria, una serie di leggi fondamentali applicate all’economia - ma le persone non stupide sottovalutano sempre il potenziale nocivo delle persone stupide e – aggiunge – la persona stupida è la persona più pericolosa che esista”.
Ora, da parte dei cacciatori, sono stati commessi nel tempo due errori, che si continuano a commettere:
1) sottovalutare gli ambientalisti “stupidi”, di cui abbiamo fatto un esempio;
2) ritenere che tutti gli ambientalisti siano stupidi.
Questo è il grave errore che è stato commesso: una grande forza sociale come il mondo della caccia deve essere consapevole di doversi battere per i propri interessi, senza, però, ignorare le ragioni e le idee dei cittadini. E quella dell’ambiente, oggi, è una ragione diffusa, di tutti, non soltanto degli “stupidi”. Nell’espressione di uso comune i cacciatori vanno a caccia risiede il primo elemento della diagnosi di una malattia grave, che deve essere estirpata, perché, oggi, i cacciatori non possono permettersi più di andare solo a caccia.
A questo proposito, credo che qualche riflessione disordinata, quasi eretica, possa essere utile. Vorrei partire da una strofa di una canzone degli anni sessanta, che intonava il declino della campagna descrivendo l’incipiente sviluppo di fabbriche e città. Mi riferisco al ragazzo della Via Gluck, che rappresenta una metafora, a mio avviso, significativa. La canzone, del 1966, parlava di un ragazzo che viveva fuori città, che aveva una casa in mezzo al verde, finché un giorno disse ad un amico “vado in città” e lo diceva mentre piangeva e l’amico rispondeva “ma non sei contento vai finalmente a stare in città e lì troverai le cose che non hai avuto qui”. In città c’erano altre cose: c’erano, tra l’altro, anche i supermercati, mentre in campagna i supermercati non c’erano.
Ora, non è passato molto tempo, circa trent’anni e la campagna è tornata a fare parte dell’immaginario dei cittadini, come un’aspirazione, un sogno. Credo di avere ragione nell’affermare che la gente quando ha un minuto di libertà va in campagna, a fare una passeggiata, ad acquistare una bottiglia di vino, magari, se può, a fare vacanza nell’agriturismo (i dati inerenti alle vacanze negli agriturismi, in campagna, negli ultimi anni segnano un trend assolutamente crescente, un vero e proprio boom).
Questo mi fa venire in mente una battuta che la nonna di Ignazio Silone fa quando questi si reca a salutarla, per annunciare l’emigrazione: “povero figlio mio mangerai pane comprato”. Oggi, la nonna di Ignazio Silone ha una rappresentazione della realtà efficacissima, perché tutti noi vorremmo tornare ad allora. A questo proposito vi segnalo che in questi giorni, la Coldiretti ha vinto una battaglia con il Ministero delle Finanze, il quale ha finalmente riconosciuto agli agricoltori la possibilità di fare il pane. Infatti, una legge del 1967 impediva a questi la panificazione: ora, oltre al pane dei commercianti potremmo tornare a mangiare il pane dei contadini. Sostanzialmente, i cittadini stanno facendo un percorso a ritroso. Da questo punto di vista, l’agricoltura ha avuto ed ha idee di successo, è stata capace di diventare un modello positivo - perché sostenibile - di economia e la chiave di questo successo è stata, proprio, quella di far partecipi i cittadini-consumatori di un modello di sviluppo, che è stile di consumo, attuando, così, un’inversione di marcia.
Una delle malattie più gravi che ha interessato l’agricoltura – peraltro assistita dai contributi comunitari – è stata l’abbandono del territorio ed il suo rapporto con l’ambiente. L’agricoltura, per un periodo, è stata un’attività che distruggeva ciò che produceva. Qualcuno di noi ha immagini ancora vive delle distruzioni perpetrate dalle aziende, che intervenivano sul mercato per controllare i prezzi dei prodotti. Una concezione con cui noi non abbiamo più nulla a che fare e che ha rischiato di portare l’agricoltura sulla strada dell’asservimento a modelli culturali che l’avrebbero, inevitabilmente annientata, impoverendola di risorse e di valori.
Poi è intervenuta una svolta, che ha condotto a privilegiare il consumo di elementi di qualità e sicuri: la mucca pazza del 2000 ha cambiato il mercato, le normative, l’attenzione verso il territorio. Oggi si parla di identità locale, di tradizione, di prodotti tipici.
Giorni fa, in allegato al Sole 24 ore, c’era un supplemento, con una una mucca in copertina, dedicato al modo con cui oggi ci si alimenta, in termini di innovazione e di qualità, che dà l’idea della rivoluzione di idee a cui stiamo assistendo. Tutto ciò è stato possibile grazie ad un dialogo aperto e trasparente con i cittadini-consumatori.
Voglio aggiungere un dato attinente ai media: nel 2009 è stata rilevata la presenza delle organizzazioni agricole nelle principali televisioni per un totale di 2.269 apparizioni (quelle della Coldiretti sono il 67%: ben 1.611). Si tratta di servizi in cui le organizzazioni agricole parlano di agricoltura, di cibo, di alimentazione, di ambiente, di salute. Parlare di economia rurale, oggi, non è per nulla marginale, perché il cibo è occasione di socialità, di tempo libero, di incentivo al turismo, di cultura, di impegno sociale, di tradizioni e stile di vita. Inoltre, grazie all’esempio, si vende vino, si offrono stimoli: i nomi dei vitigni, dei luoghi, il piacere della degustazione. Insomma è necessario avere la forza di svolgere un racconto e non solo di vendere prodotti.
Anche la caccia deve, finalmente, tornare a svolgere un racconto. Per questo bisogna essere temerari, sapersi leggere dentro, valutare le eventuali contraddizioni, senza ipocrisie ed esitazioni, per individuare i limiti. La domanda che ci dobbiamo porre è: il mondo della caccia ha qualcosa da rimproverarsi, sì o no? La risposta più comoda sarebbe quella di rispondere di no e, quindi, continuare a non fare nulla. Secondo me, invece, bisogna essere temerari ed interrogarci sulla sostenibilità di alcuni fattori, come, ad esempio, l’immagine nella comunicazione, la percezione di questa immagine da parte della società, la reputazione, ossia la fiducia che gli altri ci accordano, la continuità e la contiguità con gli interessi dei cittadini. Come possiamo costruire un’immagine della caccia capace di far diventare i cittadini amici della nostra occupazione?
L’ultimo slogan di Coldiretti - lo cito perché mi piace particolarmente – è Coldiretti, “una forza amica”, non un partito, un sindacato, un’associazione, ma una forza amica. E ciò allude all’attenzione verso un modello di condivisione.
Credo che anche la caccia possa essere una forza amica, amica dell’ambiente. Credo che si dovrebbe avere l’abilità di mettere da parte i pensieri logici e ordinati e pensare a nuove opportunità e, cioè, vedere le cose come non sono state mai viste prima.
Torniamo alla metafora iniziale e concentriamoci sull’oggetto della comunicazione. Voglio fare un esempio, che riguarda i giornali della caccia, i quali, purtroppo, appaiono sempre più corporativi. Deve essere chiaro che sono perfettamente consapevole del fatto che si tratta di importanti significati per chi ci ascolta. Ma la pubblicità delle sigarette non parla di percentuali di nicotina e di catrame alle persone interessate al piacere, all’evasione, al ristoro. Ed è questo che dovrebbe fare la caccia.
E’ stata una grande soddisfazione, per me, leggere, alcune domeniche fa, una pagina bellissima di Repubblica - che è il giornale che più attacca la caccia - intitolata: “Cinghiale: onore al maiale guerriero”. Questo è il seme di una grande possibilità di comunicare la caccia attraverso significati diversi rispetto a quelli del fucile, perché accompagnato anche da parole intelligenti. Infatti, uno dei massimi storici dell’alimentazione, Massimo Montanari, nel tirare anche una frecciata agli ambientalisti, afferma che, non solo il maiale/cinghiale è buono e ci fa tornare al gusto dei contadini medievali, ma è anche troppo diffuso nelle campagne e, quindi, deve essere abbattuto. E’ chiaro il riferimento al concetto di prelievo sostenibile.
Conosco i dati dell'indagine su gli italiani e la caccia del prof. Finzi, che dice che la maggioranza degli italiani non è contraria alla caccia regolamentata e sostenibile. Non mi ha convinto. Si tratta di un lavoro egregio, che, però, va accompagnato ad altre riflessioni. Non tanto perché un altro sondaggio, che lui ha criticato sul piano metodologico, dice tutt’altro (ossia che sono fortemente contrari alla caccia il 70% degli italiani), ma per quanto riguarda le conclusioni che trae. L’affermazione che “se il mondo venatorio saprà conquistare consensi all’idea di una caccia sostenibile, potrà godere di un sostegno maggioritario sempre più esteso”, non mi vede per nulla d’accordo e vi spiego il perché. Occorre modificare i valori invece di continuare a spiegare le modalità dell’esercizio venatorio ed insistere sulla sua regolamentazione. E’ una questione culturale: la gente non capisce più la cultura che sta dietro alla caccia. Nulla cambierà finché non avremo la capacità di incidere su ciò che la gente pensa e su come la gente si comporta. La caccia rappresenta, prima di tutto, un tema culturale ed anche le norme di settore ne sono una emanazione. La Legge n. 157 del 1992 contiene ottime disposizioni, che, però, non vengono applicate, proprio perché manca il tessuto valoriale che, ricordiamolo, in un’interpretazione storicistica, è alla base della norma medesima.
I comportamenti sono il frutto della testa delle persone nonché delle caratteristiche del contesto di riferimento. Quindi, fare progetti di cambiamento senza ri-orientare la cultura significa illudersi con disegni astratti. Noi non potremmo uscire dalla sitazione in cui ci troviamo, se non investiamo nel cambiare in modo significativo la cultura della caccia nel nostro Paese.
E qui, per ora mi fermo.
In Bocca al Lupo