Forse perchè sono ormai due anni che soffriamo questa pandemia, forse perchè cominciamo a manifestare sintomi della sindrome ucraina, forse anche perchè le nostre aspettative di cacciatori vengono spesso deluse, si affacciano sempre più frequenti appelli all'unità, al "facciamo squadra" per confrontarci con un mondo che ci appare sempre più ostile. Anche certa politica, sollecitata da comparti economici ulteriormente in allarme (il piombo, la modifica della carta costituzionale, la crisi dei portafogli), si cimenta con richiami sempre meno vellutati affinchè si pensi al bene comune (della caccia) prima ancora che alle singole categorie di riferimento. Che vadano per la maggiore come i cinghialai, o per la minore come quei tapini bistrattati da decenni che sono i migratoristi (i selettori fanno ormai storia a sè, nel bene e nel male).
Certi inviti al cambio di passo riecheggiano gli antichi appelli al "colpo d'ala" degli anni ottanta-novanta. Si parte con una serie di obiettivi, il primo dei quali a mio parere è determinante e per questo complicato e difficile: la caccia - ma soprattutto i cacciatori, a mio parere - è determinante per la conservazione della biodiversità. Verissimo, soprattutto se si decide di cambiare approccio e - insieme alla denuncia del bracconiere - si cominciano a segnalare le infinite aggressioni al nostro patrimonio naturale. L'industria che inquina, l'agricoltura che distrugge paesaggi, la speculazione fondiaria che ruba terre fertili.
Per comunicare la lieta novella, gli strumenti necessari, non certo a poco prezzo, ma accessibili, ci sarebbero da tempo: i social, oggi riempiono la vita di decine di milioni di italiani. Centinaia sono i gruppi dedicati agli argomenti delle nostre multiformi attività venatorie. Possono servire per lanciare slogan, segnalare misfatti ambientali, dare delle dritte. Educare soprattutto alla comunicazione: insegnare cioè a utilizzarli per un uso più appropriato: fare cioè una diffusione del verbo dell'utile cacciatore coinvolgendo tutti gli altri gruppi social, i più disparati. Perchè se abbiamo imparato qualcosa, in questi anni, è proprio che non serve raccontarcele fra di noi, che pur nella diversità già le sappiamo.
Ma serve anche sapere cosa dire e come dirlo. Soprattutto per farci capire da una comunità che ha occhi e orecchie ormai lontani dalla realtà delle nostre campagne, vissute da metropolitani e vacanzieri come un prodotto da consumare. Rendere compatibili i linguaggi è perciò dirimente. E non basta purtroppo comprare pagine sui media - la televisione ormai ci è praticamente ostile per scelta codificata - se non si definiscono precisamente gli obiettivi della comunicazione (per semplificare: questo va detto così, questo non va detto!) e si fa uno sforzo corale affinchè tutti, aldilà delle proprie convinzioni politiche e associative, si trasmetta lo stesso messaggio. Semplice, ma convincente per chi non se ne intende o - peggio - si è già fatta un'idea sbagliata della caccia e dei cacciatori a causa del martellamento incessante di quel farlocco ambientalismo animalismo, che finalmente sta per essere messo alle corde dal precipitare degli eventi.
Un tempo, i grandi partiti distribuivano alle loro organizzazioni di base dei piccoli ma efficaci manuali di comportamento, ridotti all'essenziale, adatti all'utilizzo in tutte le occasioni e in tutti i contesti. Con slogan, parole d'ordine, messaggi subliminali. Una specie di marketing de noantri che non sarebbe male avere come riferimento tanto per cominciare. Poche parole, pochi concetti, ma condivisi, insomma.
Buon lavoro a tutti.
Maurizio Poli
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