Piccolo è bello, per la caccia, non c'è dubbio. Lo scoprirono principi e re, quando decisero di costituire le riserve (reali o principesche che fossero, i primi parchi) a proprio diletto. Non certo per mangiare, o comunque non solo per allietare la tavola, che sicuramente allora come oggi fa una certa differenza se imbandita con le prelibatezze che ci riserva la carne di selvaggina.
A casa nostra, nel Molise, come dire, piccolo sembra ancora più bello. Un vero paradiso per i cacciatori locali. E non meno fortunati sono i cacciatori della Val d'Aosta, i piemontesi, i trentini e gli altoatesini. Un po' più sacrificati stanno in Umbria, Toscana, Lazio, Lombardia, Campania e Veneto. Hanno meno terre a disposizione. Forse è anche per questo, vista la loro esuberanza in fatto di caccia, che sono propensi a spostarsi altrove, dove un po' di buona terra ancora esiste. Si fa presto, dunque, a dire nomadismo. Sono i cacciatori delle metropoli (in Italia, in ordine di affollamento, ad esempio, Roma, Milano, Napoli, Palermo, Firenze, annoverano ancora un bel numero di cacciatori orfani di territorio utile) che alle prime brezze d'autunno sciamano soprattutto al sud. O meglio, vorrebbero "sciamare", ma devono fare i conti con le disponibilità ad accogliere di quelle terre.
L'animalismo, in questa Italia a cavallo del millennio, venti anni prima, venti anni dopo, ha fatto danni, dando la stura agli egoismi economici, al progresso senza freni e senza controlli, sia nell'industria sia nell'agricoltura, che - complice una parcomania inetta - ha fatto perdere una grossa parte di terreno utile, inquinato fiumi e lagune, aria delle metropoli, degradato boschi e foreste, avvelenato la falda, riducendone la fertilità. In questo quadro, storia, cultura, tradizioni, evoluzione economica e sociale hanno fatto la differenza anche nella caccia. E nei cacciatori. Per cui, rispetto al tre per cento circa della popolazione (anni ottanta), il numero dei cacciatori attivi è sceso almeno della metà. Secondo dati ufficiali, negli ultimi quindici anni il calo è stato complessivamente del 15-16%. Tenendo conto, fra l'altro, che almeno una non irrilevante parte dei cacciatori nostrani ormai trova più salutare recarsi all'estero, magari a tre passi dal confine, o poco più in là, per evitare beghe, rifiuti, pastoie burocratiche, stupidaggini varie.
Il grosso, tuttavia, resiste, anche perchè di selvaggina a disposizione non è che ce n'è meno, anzi, fatte le dovute considerazioni a causa dei cambiamenti ambientali, climatici e sociali, qualche specie è cresciuta nei numeri, qualcun'altra è calata. Guarda caso, dove dovrebbero avere inciso certe associazioni ambientaliste (sugli uccelli, ad esempio) qualche specie tipica ha segnato il passo, dove invece le stesse associazioni si sono disinteressate, certe altre specie (uccelli, ma non solo) non hanno avuto problemi. E anche qui, in molti casi, i cacciatori hanno fatto la differenza. In positivo. Certi squilibri, purtoppo, hanno anche un nome e cognome: si chiamano "peccaminosa gestione delle aree protette", che se da una parte ha offerto una remunerazione facile a tanti scioperati, dall'altra ha messo un patrimonio incommensurabile in mano a persone in certi casi addirittura assurte ad arbitro delle sorti del nostro patrimonio ambientale. Senza soverchi meriti e, malauguratamente, senza la sufficiente competenza. L'errore più grosso è stato quello di considerare il belpaese come se fosse il Klondike, o l'Alaska. Una terra selvaggia, immacolata, quando invece è stata ed è ancora l'incommensurabile meraviglia frutto della mano dell'uomo, almeno dal tempo di Enea. "Paesaggio" e non certo "natura selvaggia".
Ma come stanno i nostri cacciatori del terzo millennio? Come si dice: c'è chi ride e c'è chi soffre, appunto.
Tutto in funzione della qualità e della disponibilità dell'ambiente, della concorrenza sul territorio: dove ci sono tanti metropolitani che - del tutto ignari della benchè minima cultura rurale - avendone piene le tasche della metropoli si riversano con impressionante frequenza per monti e valli, la pressione ostile si fa sentire. Dove si respira ancora aria quasi bucolica, nei paesi di campagna, nei borghi, dove la gente tiene tuttora la porta aperta anche di notte, anche la caccia gode di buona fama. Val d'Aosta, Basilicata, Sardegna, Molise sono terre d'elezione per la caccia. Ma anche l'Umbria, che peraltro registra il più alto tasso d'affezione, tre per cento di cacciatori sull'intera popolazione, con però - in Umbria - solo trenta ettari a disposizione per ogni cacciatore, mentre la media nazionale ammonta a cinquantacinque ettari per cacciatore. Sicuramente meglio se la passano in Molise, dove un cacciatore dispone di quasi trecentosettanta ettari a testa, o in Valle d'Aosta (232 ettari a testa), in Piemonte (172 ettari), in Basilicata (150), in Trentino A.A. o in Abruzzo (più di 100 ettari a testa). Altrove scalpitano, anche se tutto sommato, in media almeno, pur con la riduzione del terreno utile, pur con questa scandalosa gestione delle aree protette (in alcune provincie il terreno utile alla caccia è pressochè ridotto al lumicino), la situazione è migliore di mezzo secolo fa. Il che dovrebbe convincere i nostri governanti che la caccia non può comunque e in ogni caso essere un problema, anzi, a ben riflettere (ma chi riflette oggi in questo mondo di schizzati?) la buona politica dovrebbe far di tutto per incentivare la caccia, salvaguardare le tradizioni, usufruire delle buone pratiche di un popolo che può fare ancora molto per la salvaguardia dei nostri territori e di quel patrimonio di animali selvatici che malgrado perduranti scelte scellerate è ancora a disposizione di tutta la comunità.
Ci sarà, prima o poi, qualcuno, di qua e di là del fosso, che accoglie questi nostri appelli alla ragionevolezza?
Speriamo.
Vito Rubini
Nota.
A riprova che la caccia in Italia non dovrebbe essere un problema, basta fare un giro d'orizzonte in Europa, per sapere che in Francia i cacciatori sono il 2,1% della popolazione, in Spagna intorno al 3%, in Norvegia sono il 4,5%, in Finlandia il 5,8%, a Cipro il 6,4 e, infine, in Irlanda il 9%. (fanalino di coda l'Olanda: 0,1%). In questi paesi la caccia è grandemente rispettata ed è considerata un elemento importante per la conservazione dell'ambiente e della vivacità delle comunità locali.