In cinofilia, tutto quello che c’era da scrivere è stato scritto, e tutto quello che c’era da fare è stato fatto. Le cose che noi possiamo dire, sono solo una furbesca ripetizione di quanto ci è stato tramandato, con l’aggiunta di qualche piccola modifica, e di qualche personale considerazione.
I nostri articoli, se vuoti di osservazioni e puntualizzazioni, non suscitano alcuna curiosità e non meritano di essere letti, perché non fanno altro che ripetere nozioni già ben note e conosciute. Mi sembra quindi almeno conveniente, fare un piccolo sforzo per cercare di capire i contenuti ed i concetti di quelle definizioni tanto precise che descrivono i caratteri etnici in funzione del lavoro.
Spero di riuscire ad esprimere con sufficiente chiarezza queste mie considerazioni che, frutto di una diversa interpretazione, hanno il solo scopo di confrontarsi con quelle convinzioni radicate ed ampiamente diffuse che, a mio giudizio, non entrano pienamente nel merito, ed in alcuni casi sono addirittura superficiali.
Giovanni Pastrone, regista cinematografico e cinotecnico di chiara fama, incaricato dal Congresso Cinologico di Parigi nel 1937 di commentare gli standard di setter e pointer, tratteggiò con profonda cognizione i comportamenti, le caratteristiche e gli atteggiamenti dei cani, nelle varie fasi del lavoro. Cultore intransigente dello stile, le sue descrizioni -che sono a mio avviso un patrimonio culturale di immenso valore per gli appassionati di queste razze- rivelano uno spiccato temperamento d’artista. Qualità che gli fu riconosciuta dai più illustri personaggi del tempo, quali Solaro e Colombo.
Mi sono sempre emozionato alla lettura di quelle sue note e, come un bambino che leggendo il romanzo preferito rivive con la fantasia le gesta dei suoi eroi, la suggestiva immagine di quel setter elegantissimo, flessuoso e felino che, con galoppo rapido e spigliato, scivola veloce attraversando un’ampia distesa di grano, non mi ha più abbandonato e non riesco ad ammirare un ideale spazio di campagna, senza che il miraggio della sua inconfondibile sagoma mi appaia. Pur sapendo che le indicazioni suggerite da questi testi sono state nella loro sostanza recepite, ed i criteri di giudizio a queste adeguati, è mia convinzione non siano state comprese le ragioni e le più sottili sfumature che, in sintonia con la psiche, favoriscono e impongono per una migliore funzione quelle manifestazioni di stile che non sono solo piacevoli a vedersi, ma utili e vantaggiose a conseguire il rendimento. Proverò ad entrare nei dettagli delle caratteristiche di lavoro del setter inglese, con considerazioni che non hanno la pretesa di mettere in discussione la giustezza degli standard, ma intendono darne una diversa chiave di lettura e sfatare alcune opinioni che a mio avviso si sono imposte più per tradizione e consuetudine, che per convincimento. I paragoni con il pointer, per rimarcarne le differenze, sono numerosi e riguardano morfologia, temperamento, comportamenti e atteggiamenti, che in maniera particolarmente evidente, nell’andatura, in filata, nella ferma e in guidata, rimarcano decisamente lo stile di razza, e sono tali da essere individuati anche da un occhio inesperto.
Gli aggettivi spigliato, elegantissimo e rapido, con l’aggiunta di quel “non impetuoso”, sono appropriati e altamente descrittivi, da soli rendono molto bene l’immagine del galoppo setter, ma le successive argomentazioni, con l’analisi di forme, regioni e misure, non solo lo configurano, ma ne spiegano e giustificano scientificamente il suo comportamento nelle varie fasi del lavoro.
“A parità di lunghezza del tronco, si svolge secondo una linea più presso terra (rasente)”. Appare evidente che, caratteristica tipica e specifica dell’andatura, sia la radenza, condizione influenzata dalla psiche e imposta sotto il profilo meccanico dalla brevità dell’avambraccio, che è un dato di fatto inoppugnabile, mentre la maggior lunghezza del tronco in rapporto all’altezza al garrese, è solo consequenziale a questa particolarità che condiziona in maniera evidente, l’angolatura degli arti in stazione e in movimento. Perfino la sua maggior pieghevolezza che gli fa assecondare in souplesse anche le lievi ondulazioni del terreno, viene evidenziata da questa caratteristica tipicamente setter, che merita di essere analizzata in tutti i suoi aspetti e nei numerosi effetti.
Per meglio definire questo concetto, si ritorna al confronto con il pointer, già chiamato in causa per la sua riconosciuta maggior velocità. “L’omero del pointer, più corto per rispetto al radio, diminuisce le possibilità angolari, e forse la distanza di appoggio degli arti anteriori”. Nel setter, l’omero è più lungo dell’avambraccio, e l’articolazione tra queste due ossa avviene più vicino a terra. La sua lunghezza e inclinazione, arrivando -nel momento di massima estensione- a mettersi sull’asse della spalla, favorisce un’oscillazione più lunga dell’arto, ed una più lunga sgambata. Questa leggerissima differenza nella distanza di appoggio degli arti anteriori, il pointer la compensa ampiamente con una spinta più potente, che lo proietta più in alto ed in avanti.
“Il posteriore, poi, è costruito per la sgroppata poderosa, ed i due arti posteriori danno la spinta propulsiva in due tempi si, ma più serrati e si protendono maggiormente indietro.” Visti di profilo sono un po’ fuori di sé avendo le dita dei piedi circa tre cm. dietro alla perpendicolare abbassata dalla punta della natica a terra.
“Nel setter inglese invece, i tempi sono più larghi, e gli arti posteriori lavorano più separatamente”; mentre la perpendicolare che si abbassa dalla punta della natica a terra, sfiora la punta delle dita, ed il posteriore lavora più sotto di sé, protendendosi meno all’indietro.
Queste note, a mio parere molto ben fatte, dovrebbero indicare e suggerire in modo inequivocabile, i criteri di giudizio da adottare. Sostanzialmente, sono entrate nello spirito degli appassionati, ed anche se alcune storture -diventate di uso corrente- sono impiegate impropriamente, la cosa non è grave, perché di norma il difetto viene rilevato, ma sarebbe meglio essere più chiari e precisi usando definizioni corrette, in sintonia con quanto riportato dagli standard.
È incomprensibile come si sia potuto equivocare un concetto tanto chiaro e importante nella valutazione dell’andatura. L’affermazione che nel setter i tempi sono più larghi, è riferita esclusivamente al posteriore, nel senso che gli arti posteriori sono meno simultanei nella battuta, infatti ribadisce che lavorano più separatamente, e forse questo contribuisce ad evidenziare la morbidezza del movimento. Nel pointer, invece, la spinta propulsiva avviene in due tempi si, ma più serrati, è quindi chiaro che si tratta di una questione riguardante esclusivamente la maggiore o minore contemporaneità di spinta degli arti posteriori. Dall’incomprensione che ritiene “i tempi più larghi” siano invece riferiti all’intervallo che passa dalla propulsione degli arti pelvici, all’appoggio dell’anteriore, è nata la convinzione che il setter inglese non debba essere rapido, e vengono addirittura penalizzati e bollati con questo aggettivo -che è invece qualificativo nella descrizione del galoppo- soggetti che, per costruzione inadeguata, hanno sgambata di ridotta ampiezza, non coprono terreno e, per sostenere velocità, il ritmo con cui si succedono i passi diventa frenetico e gli appoggi frequentissimi. Sono spesso causa di questi inconvenienti: collo corto, angolo scapolo-omerale troppo aperto, spalla e braccio corti… che sono difetti ben più gravi e vanno condannati con severità.
Per rimarcare questo preoccupante problema, vorrei ricordare che ha ben ragione l’amico Zurlini, quando afferma che la più semplicistica, diffusa e sbagliata schematizzazione sia pensare che gli arti pelvici provvedono alla spinta, la groppa a trasmetterla al tronco e gli arti anteriori “a prendere terreno”. Cita poi, in un lungo elenco, le altre regioni che concorrono alla propulsione, e conclude: per quel che concerne l’arto anteriore, a chi avesse a dubitare del suo rilevante contributo alla spinta, basterebbe, per convincersene, osservare come si muove arrancando un cane in salita.
Ho riportato questa autorevole opinione per far capire che più l’oscillazione dell’arto è lunga, e più ampia la sgambata, maggiore sarà il suo contributo alla spinta. Un galoppo allungato si regge più a lungo agile e sciolto mantenendo inalterate, la respirazione e l’ossigenazione, mentre con passo raccorciato lo sforzo diventa eccessivo e ci si affatica presto, impoverendo anche le capacità dell’apparato respiratorio e di quello olfattivo. In queste condizioni, la bellezza dell’andatura setter è seriamente compromessa, e non può certamente apparirci spigliata, elegantissima e nemmeno di radente souplesse. “Rapido”, invece, oltre al suo importante significato, non solo non sminuisce il corredo delle altre qualità di galoppo, ma lo accresce di prestigio per il suo coefficiente di difficoltà. Un conto è dimostrare al rallentatore pieghevolezza, radenza e morbidezza, altro -e ben più difficile- farlo a giusta velocità, ed è qui che sta la massima tipicità del Laverack. A sostegno di questo concetto, trascrivo il seguente brano tratto da I Setters di Enrico Oddo:
“Invero nessun altro galoppatore come il setter inglese sa andar via rasente a terra morbido e rapido come se questa elastica andatura fosse già il preludio di una risalita d’emanazione”.
Merita inoltre una particolare attenzione la descrizione del portamento di coda, che oltre a rispecchiare reazioni ed emozioni, è l’espressione più evidente del carattere e della natura dei cani. Ad una lettura superficiale, può sembrare che lo standard non dia indicazioni corrette su questo punto. Proverò a citarne i passi più significativi ed a fare alcune riflessioni: “La coda è portata secondo il prolungamento della linea renale, con tendenza al basso (mai più alta) ben viva e nervosa, nei rettilinei a grande velocità, oscilla solo dall’alto in basso”.
Questo è il comportamento di base, sono poi elencate alcune circostanze, in cui ragioni concomitanti, ne alterano la compostezza: “la tendenza ad una maggior analisi -i facilissimi distacchi dai rettilinei, ove la coda frangiata gli è efficacissimo timone- i continui lievissimi rallentamenti con immediata ripresa dell’azione... Per queste ragioni, mentre nei grandi trialler si notano oscillazioni dall’alto in basso spesso combinate con moti trasversali che si traducono in rotazioni contenute, ritmiche con il galoppo, ora verso destra, ora verso sinistra, in dipendenza della rotazione del tempo di galoppo, i soggetti lenti, tenuto conto della loro natura, che chiara si rileva, battono allegramente la coda in cerca”.
Sono trascorsi settanta anni dal commento di queste caratteristiche, che erano corredo dei setter di quel tempo e ancora oggi sono presenti in gran parte dei soggetti impiegati assiduamente e a lungo, in caccia, tanto da essere gradite da molti cacciatori, che più il dimenio di coda è accentuato, più si eccitano convinti di essere in prossimità del selvatico. La rigida selezione operata su questo aspetto, l’esasperazione di una prestazione concentrata e condensata in brevissimo tempo, ha privilegiato nei soggetti da prova, quelli che costantemente la mantengono tesa ed immobile, non solo durante il galoppo, ma anche nel delicato momento dell’accertamento e della risoluzione d’emanazione.
In ultima analisi, vorrei soffermarmi sui comportamenti e gli atteggiamenti, che il Laverack assume a contatto d’emanazione, in base all’intensità dell’effluvio e alla distanza più o meno ravvicinata da cui proviene. Il temperamento cauto e sospettoso, fa sì che, trovandosi all’improvviso a ridosso di selvatico, per poca che sia l’erba, sparisca a terra come inghiottito per incanto, fermando in pose contratte, spasmodiche, rigidissime. Trovandosi in questa inconveniente emergenza, nel disperato tentativo di non far volare, senza per questo rinunciare al suo esuberante ardore, può scattare in ferma a terra, anche il pointer. Compiono entrambi la stessa azione, ma con la diversa modalità che la razza impone: il primo scivola, il secondo schianta; in entrambi i casi è un modo per rimediare ad una difficile circostanza (a mali estremi, estremi rimedi). “Quando invece entra in una zona lievemente impregnata di effluvio, rimonta nel vento, seguendo l’emanazione il più direttamente possibile e se s’accorge della presenza del selvatico, rallenta e s’irrigidisce in ferma. È preferita in questo caso la ferma in piedi”.
Vorrei sottolineare che “ ferma in piedi”, non significa “ eretta”, ma che lo sterno non è appoggiato a terra, (o a pelle di leone, come qualcuno preferisce). A mio parere un setter che in ferma, anche con selvaggina a lunga distanza, sia completamente eretto, senza flessioni degli arti, non ha la giusta mentalità del Laverack. Non mi sembra corretto giustificarlo, perché considerata la lontananza del selvatico verrebbe a mancare la necessità di celarsi. Se così fosse, sarebbero a parer mio superflui, tutti quei comportamenti -come la marcata contrazione muscolare, scapole salienti, avanzare silenziosissimo, zampe trasformate in scorrevoli rotelle, pose da felino in caccia e gattonate striscianti- che sono manifestazioni di prudente personalità, e non avrebbero nessun significato d’esser messe in atto, se poi la ferma non dovesse rispecchiarle, con grande espressività.
Per maggiore chiarezza, vorrei richiamare l’attenzione dei lettori a quella straordinaria immagine della Caprice del Volo, che a mio parere rappresenta l’ideale. Alla ferma a terra prediligo sempre quella con posteriore molto flesso, anteriore più alto e leggermente inclinato. È una postura che lo presuppone più pronto alla guidata, mentre quella totalmente schiacciata, denota spesso un atteggiamento rinunciatario. A conferma di quanto suesposto, credo utile rileggere lo standard nella sua conclusione, che mi sembra molto bella ed appropriata:
“Quando il selvatico, al giungere del conduttore, tenta di allontanarsi pedonando, il setter inglese lo segue preoccupandosi di mai perdere il contatto, senza volontariamente abbandonarlo, per ritrovarlo nel vento, facendosi ora serpe ora pantera; allungandosi spesso inverosimilmente, sfoggiando le più svariate pose che l’orgasmo quasi voluttuoso del momento impone al suo corpo flessuoso e plastico”.
Mi sembra una descrizione fantastica, verrebbe da pensare che il merito sia tutto del setter, per la sua grande capacità ispiratrice, ma siccome anche quella del pointer è altrettanto straordinaria, credo proprio che dovremmo essere immensamente grati al suo raffinato autore, Giovanni Pastrone.
Ancora oggi mi commuovo alla lettura di questi brani, che configurano l’immagine meglio di un filmato, a volte la mente sa vedere meglio degli occhi.
“Si osservi che l’azione di gattonata è sempre tanto bassa e strisciante quanto più il setter ha timore d’essere visto dal selvatico (terreno scoperto). Quando, per contro, è assistito da buon vento decisamente favorevole, e da vegetazione sufficientemente sviluppata, allora tutto il lavoro è più alto a distanza, e meno sospettoso, e le ferme sono in piedi, con gli arti appena flessi.”
Senza nessuna pretesa di trarre conclusioni, lasciando ognuno libero di averne di proprie, e motivato dall’esclusivo desiderio di esprimere una personale opinione, mi sembra evidente che oltre alla straordinaria passione venatoria, il comportamento del setter in caccia e in prova, sia espressione di massima determinazione e intraprendenza, condizionate però da quella prudente ed accorta cautela, che in diversa misura, si manifesta comunque sempre durante la cerca, aumentando di intensità ed espressività, man mano che l’emanazione aumenta, fino a raggiungere il più alto significato in ferma ed ancor di più in guidata.
Ivo Geminiani