Mentre il mondo della caccia si occupa di difendersi dai continui attacchi politici e di portare in risalto la vera essenza del cacciatore: ambientalista e detentore di antichi e nuovi saperi sulle silenziose dinamiche della natura selvaggia, un botta e risposta sulle origini della filosofia wilderness e sulle sue moderne applicazioni è rimbalzato nelle ultime settimane in rete su autorevoli siti che si occupano a tutto tondo di filosofia, società e ambientalismo.
Tutto è partito da un intervento televisivo di Massimo Zaratin (delegato regionale in Veneto dell'Aiw) il quale ha affermato che sulla base dei principi dei padri dell'ambientalismo occidentale: H. D. Thoreu e Aldo Leopold che hanno ispirato e ideato il movimento Wilderness, la caccia è ben compatibile con la conservazione della natura: se non altro perchè l'uomo ad essa appartiene ed è alle sue regole che risponde, anche attraverso la caccia.
A confutare tale teoria e a respingere l'idea che la caccia moderna possa essere accomunata a quella a cui pensavano i due naturalisti è il professor Paolo Scroccaro nel saggio Wilderness: "Thoreau, Leopold e la caccia". “Dov'è la spiritualità della caccia, citata dall'AIW – scrive - in un contesto di sproporzione abissale tra la potenza tecnologica a disposizione del cacciatore e l'impotenza delle vittime?” e ancora: “cosa c'entra tutto questo con lo spirito della Wilderness così come vissuto da Thoreau? Cosa c'entra la piccineria prepotente del cacciatore odierno con l'etica della terra propugnata da Aldo Leopold? Per Scroccaro non bisogna poi sottovalutare i segnali di una sorta di distanza dalla caccia presa da entrambi i personaggi. Thoreu viene descritto come un propugnatore del vegetarianesimo, mentre a Leopold viene attribuita un'inversione di marcia sulle sue teorie riguardo alla conservazione della fauna attraverso la gestione della selvaggina, fino alla “svolta ecologista radicale”.
Posizioni che per Zaratin, nel saggio di risposta al professor Scroccaro "Dove sta andando la filosofia ambientale dell'”homo urbanis”?, si discostano dalle questioni puramente filosofiche che i paladini della Wilderness hanno messo in campo: ovvero salvaguardia ambientale, conservazione del territorio e conversione dell'uomo ad una vita il più naturale possibile. Un concetto, per Zaratin, “chiaro in molte parti del mondo, specialmente in America" ma non laddove c'è “una predominanza culturale tendenzialmente “urbana” che continua a voler negare alcuni aspetti della natura che risultano invece senz'altro più chiari a chi vive un rapporto diretto con il territorio ed in esso vi pratica le più strette ed "intime" attività”. Il problema dunque è la percezione negativa che gli stessi cittadini urbanizzati, filosofi e non, mantengono sull'intera questione caccia e “che il più delle volte – scrive Zaratin - deriva da una scarsa se non nulla conoscenza sia tecnica che "psicologica" della materia”. Così come ampiamente dimostrato dal sondaggio Astra Ricerche.
Se poi si vogliono analizzare i tentennamenti dei due filosofi, per il delegato veneto dell'Aiw occorre contestualizzare le loro vite e il loro pensiero. La visione ambientalista dell'epoca (in pieno '800) era estremamente antropocentrica. Non si parlava di ambientalismo (arrivò solo dopo il grande inquinamento delle fabbriche e la deforestazione) e nemmeno di gestione faunistica, se non in maniera del tutto pionieristica. Nella sua idea di razionalizzazione delle risorse faunistiche Leopold fu influenzato dal programma conservazionistico di Gifford Pinchot che considerava ancora l'uso delle foreste a stretto vantaggio immediato dell'uomo, non ci si poneva affatto quindi il problema di intervenire in maniera massiccia sui predatori. Fu proprio questa una molla fondamentale per far nascere nel filosofo, che amava profondamente la natura, l'idea illuminante di “pensare come una montagna”, intuizione che, spiega Zaratin “pose le basi della moderna biologia di conservazione”. Nessuna svolta anticaccia: “egli, ricordiamolo bene, non smise mai di andare a caccia ed i suoi studi, affiancati a questa passione, gettarono le basi dell'attuale modello di gestione faunistica il cui relativo approccio alle varie tematiche è impostato su canoni rigorosamente scientifici”.
Il discorso improntato su termini prettamente teorici dei nemici della caccia, secondo cui la natura selvaggia può essere vissuta anche evitando il prelievo degli animali, appare quindi la tipica forzatura di un antropocentrismo moderno, figlio di una civiltà orientata prevalentemente verso il benessere tecnologico e all'apparire piuttosto che all'essere. E' chiara quindi semmai la crisi esistenziale in cui l'uomo moderno è immerso, avendo abbandonato il contatto con le cose reali e con la natura di cui fa parte.
L'uomo, per Thoreau, è dipendente dal "mostro sociale" avendo perso egli la capacità di costruirsi un rifugio da solo e di procacciarsi il cibo indipendentemente "uscendo" dalla catena industriale. “Questa praticità del vivere a contatto con la natura, in un luogo freddo come quello di Walden – spiega Zaratin - creò infatti non pochi problemi conflittuali al filosofo ambientalista che ideologizzava una dieta vegetariana, mai perseguita però fino in fondo durante la sua permanenza in quei luoghi solitari. Una "piccola" contraddizione, questa del filosofo, anche teorica in quanto Thoreau ereditò la concezione di natura trascendentale da Emerson che nel saggio "Nature", in uno degli otto punti essenziale della sua filosofia, affermava che "tutto in natura ha un utilizzo" esattamente come pensa il contadino che vive immerso nella natura e ne conosce i segreti; figura questa che Thoreau trovava interessante in proporzione alla sua povertà nonché valido sostituito del saggio e del filosofo”.
“Nella concezione di "uomo inserito nella natura", nel rispetto dei suoi cicli e dei suoi ritmi così come predicato da Leopold e filosofeggiato da Thoreau – spiega Zaratin - la figura dell'uomo cacciatore, del "buon cacciatore" intendo, entra quale comparsa fondamentale ed inalienabile nella scena la cui protagonista è la natura. Si potrà disquisire sui metodi e sui tempi della caccia (e solo dal punto di vista scientifico) ma non sulla figura dell'uomo cacciatore quale parte integrante ed armonica del territorio che sta vivendo”.
Tutto sta nel cogliere la differenza tra chi di natura parla senza conoscerla e chi pensa e agisce come lei. Tornando all'illuminazione di Leopold “pensare come una montagna”, il saggio di Zaratin, ne spiega bene l'essenza applicata alla “cultura rurale”. “Colui che nel dibattito in questione disquisisce ad esempio se sia giusto o meno eliminare dalle nostre acque la presenza dei gamberi della Luoisiana che fanno razzia delle uova di tutti gli altri pesci sta forse pensando come il fiume? Chi, se non il pescatore, può pensare come il fiume? Chi si oppone agli "abbattimenti scientifici" dei troppi ungulati o si interroga se sia giusto o meno che l'uomo li "uccida" sta forse pensando come una montagna? Chi se non il cacciatore, l'agricoltore, chi abita e vive quel territorio può pensare come una montagna? Chi meglio del "buon giardiniere" può curare il "bello" del suo luogo?
Cinzia Funcis