Ho letto casualmente giorni fa, più per curiosità che per necessità (alla mia età, tutto si acqueta, si torna ai bisogni primari, essenziali), un'ottima nota sulla recente storia dei cacciatori italiani, a cui penso si debbano fare un paio di chiose.
Tutto vero, vado alla sintesi, quello che il notista dice: l'Italia, nella prima parte del secolo scorso ha subito una profonda trasformazione sociale. Alla plurisecolare, millenaria, società rurale si è troppo rapidamente sostituito un coacervo di pulsioni, che gli addetti ai lavori hanno a volte con superficialità definito progresso, boom economico, modernità. Con le masse che dopo una prima ondata di emigranti (Francia, Belgio, Germania, Americhe, Australia anche) si sono spostate dal sud al nord del paese, dal contado alle conurbazioni, con conseguente spopolamento delle campagne e dei borghi, che in una prima fase, per quanto riguarda l'interesse (passione) per la caccia, hanno visto la finalmente salariata classe operaia e impiegatizia riversarsi di nuovo nelle campagne nel fine-settimana e con le sospirate ferie (riservate all'autunno, soprattutto al tempo del passo). Il richiamo atavico della foresta, ma con ritmi sempre più da consumatore piuttosto che da gestore. Inevitabilmente.
Anno di svolta, si registra, il '68. Non per i venti di quella rivoluzione mancata (i sessantottini, oggi, ormai calvi, siedono nei principali centri di potere del paese e si oppongono ferocemente alla naturale...rottamazione, costringendo tutti in una palude di miasmi), ma perchè a quell'epoca risalgono due fatti determinanti per questa amata nostra attività. Una sentenza della Corte Costituzionale che sanciva la fine dell'egemonia dell'associazione unica, la Federcaccia del CONI, dando la stura a una concorrenza sospinta dal vento della modernità e di un mal concepito bisogno di democrazia (ma la spinta era dettata piuttosto dall'obbligatorietà della polizza assicurativa). La risposta della proprietà terriera alla paventata invasione delle terre, conseguente all'art 842 del Codice Civile, camuffata da quella esecranda distorsione dei movimenti ambientalisti (a mano a mano: Partito Radicale, Verdi, sinistra ecologista, populismi di destra e di sinistra), strumentalmente foraggiati dagli ormai noti centri di potere per sostenere campagne referendarie che superficialmente venivano definite anticaccia, ma che miravano invece all'abrogazione della "famigerata" concessione ai cacciatori di accedere nei fondi altrui. Obiettivo in prima istanza superato con alleanze altrettanto discutibili, e conseguentemente esorcizzato con la 157, che da una parte rafforzò il concetto di "selvaggina patrimonio indisponibile dello Stato" (nefasta monade in occidente, ma anche in oriente, a sud, e agli antipodi) e dall'altra dette il via agli ATC, ancora oggi in discreta parte male applicati, mal gestiti, mal digeriti da un popolo di migratoristi, cresciuti all'ombra dei racconti di narratori alla Barisoni, massimo esegeta/cantore della "bella vita vagabonda".
Tutte queste contrapposizioni, nel tempo, quando è andata bene, hanno provocato uno stallo, aggravando i contrasti ideologici, sia all'interno dei movimenti a favore della caccia, sia fra questi e le consorterie ambientaliste. Una fossilizzazione che implicitamente ha provocato un'impoverimento culturale (che per la verità, dati alla mano,affligge purtroppo tutto il paese), ha disorientato l'opinione pubblica, ha impedito il consolidamento di quella conoscenza dei fenomeni naturali (sfociati in Italia nel denunciato ambientalismo di maniera) che ha da sempre caratterizzato la gente che viveva in campagna, agricoltori e cacciatori soprattutto, e non ha consentito infine che le organizzazioni venatorie intraprendessero con forza l'indispensabile azione di accorto proselitismo che, unica, favorisce il ricambio generazionale e la formazione di nuove classi dirigenti.
Vezio Vanderi