Sono passati ormai venti anni da quando fra, inutile nasconderlo, una sorta di incredulità generale, si cominciò prima timidamente poi con sempre maggior convinzione a parlare di cacciare anche in Appennino, lontano dalle zone tradizionali di questa forma di caccia, ungulati che non fossero il «solito» cinghiale.
Più che una scommessa pareva quasi fantascienza. E invece… Caprioli, daini e in alcune zone perfino cervi sono ormai diventati parte integrante del paesaggio delle nostre campagne, visibili con estrema facilità anche da chi non è abituato a muoversi per i boschi con il passo leggero e l’occhio attento del cacciatore.
Una ricchezza di fauna impensabile fino a pochi anni fa, che dimostra con numeri in continua crescita come la gestione di fauna e ambiente è in grado di dare splendidi risultati anche e soprattutto quando è fatta dai cacciatori.
Questo non vuol dire che possiamo riposare sugli allori o considerare svolto il nostro compito una volta assolti gli obblighi legati al rispetto dei piani di abbattimento assegnati. L’impegno gestionale deve essere sempre più affinato e migliorato, anche perché non possiamo nasconderci che molto può essere ancora fatto.
Importante ad esempio sarebbe un modello unico di corso di preparazione rivolto ai futuri cacciatori di selezione in modo da risolvere anche la questione del riconoscimento dell’abilitazione da parte di Province diverse da quelle di rilascio.
E male non sarebbe che i corsi stessi fossero incrementati in numero e frequenza.
Anche i regolamenti – sempre più numerosi e difformi - e relative sanzioni dovrebbero essere meglio pensati e uniformati.
Ma sarebbe anche il caso di rivedere i tempi di caccia, stabilendo calendari non solo anche in questo caso più omogenei, ma anche maggiormente attenti alle reali necessità gestionali e alla biologia delle specie oggetto di prelievo.
Questo potrebbe anche permettere al cacciatore/gestore di meglio affrontare quello che in un certo senso può essere visto come il rovescio della medaglia, costituito dall’esplosione demografica delle popolazioni di ungulati. Sempre più forti infatti si alzano le lamentele da parte del mondo agricolo per l’impatto che le popolazioni di caprioli, daini, cervi e cinghiali sulle colture, in specie quelle di pregio.
È essenziale in questo campo trovare un punto di equilibrio fra le necessità di tutti - selvatici compresi - e moltissimo può essere fatto dai cacciatori, purché gli siano dati gli strumenti per farlo. Nel caso del cinghiale ad esempio è tempo che ci si renda conto che poco potrà essere fatto se non sarà consentito di intervenire in modo efficace all’interno di parchi e aree protette, che costituiscono un serbatoio praticamente inesauribile di selvatici.
In alcune realtà – ancora troppo poche – si è cominciato a farlo, ma la consueta isteria ideologica della parte peggiore del mondo ambientalista rende difficile, quando non blocca del tutto questo processo, naturale e scontato nel resto del mondo. Non è certo imponendo alle squadre di cinghiale di pagare - salati - i danni che si può pensare di risolvere i problemi. Per noi, per gli agricoltori e anche per la fauna.
Marco Ramanzini
Vice Direttore Diana
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