Il 20 gennaio scorso, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha sede a Strasburgo, ha pronunciato un’importante sentenza che, a tutti gli effetti, ha riconosciuto alla caccia un ruolo che va ben oltre quello comunemente inteso di “attività del tempo libero”, definendola attività che rientra a pieno titolo tra gli strumenti di gestione e di conservazione della natura, rivestendo in tal modo un interesse pubblico che, nella fattispecie esaminata, è necessario e giustificato.
I fatti si sono originati a seguito del ricorso presentato alla Corte da un privato cittadino tedesco, Günter Herrmann, proprietario terriero nel Land della Renania-Palatinato di due tenute di poco meno di 75 ha di superficie ciascuna. In base alla Legge federale tedesca sulla caccia, tali proprietà lo hanno reso automaticamente membro dell’Associazione di caccia della regione e da questo è disceso l’obbligo di “tolleranza” dello svolgimento dell’esercizio venatorio sui suoi terreni.
Herrmann però, che non è cacciatore bensì è contrario alla caccia per motivi etici, si è in prima istanza rivolto alla giustizia del suo Paese per ottenere sia di liberarsi dell’obbligo di divenire socio dell’Associazione di caccia locale, sia di vietare tale attività sulle sue proprietà: tuttavia, in virtù del fatto che gli organi di giustizia amministrativa germanici si sono tutti pronunciati respingendo le istanze di Herrmann (Tribunale amministrativo di Treves, Corte amministrativa d’appello e infine Corte amministrativa federale, quest’ultimo organo analogo al nostro Consiglio di Stato), egli ha dunque ricorso direttamente alla Corte di Strasburgo in data 12 febbraio 2007, contestando alla legge federale sulla caccia di non garantire il diritto del rispetto della proprietà privata, di essere per questo motivo oggetto di discriminazione e infine di essersi visto negare il diritto alla libertà di riunione e di associazione. Nella causa è stata ammessa a intervenire con osservazioni scritte la Federazione nazionale dei Cacciatori Deutscher Jagdschutz-Verband. A quasi quattro anni di distanza, la Corte dei diritti dell’Uomo ha infine reso la propria sentenza di rigetto del ricorso che, lungi dal riportare per intero, ci limitiamo a riassumere in base ai principi affermati.
In buona sostanza, la Corte ha rilevato che la legge tedesca sulla caccia è conforme all’interesse generale, poiché consente una gestione delle popolazioni animali selvatiche atte a preservare la varietà e il buono stato di salute delle diverse specie, oltre che a evitare i danni che possono essere provocati dalla fauna selvatica alle attività antropiche. Non solo: pur sembrando, come ha attestato la Corte, che l’attività venatoria sia praticata principalmente nel tempo libero, ciò non autorizza a credere che lo scopo della legge sulla caccia sia semplicemente quello di consentire un’attività di svago o, appunto, del tempo libero strettamente inteso. Il legittimo interesse privato del singolo, quindi, non può imporsi all’interesse generale. Nel caso specifico, come del resto la stessa disciplina federale prevede, il ricorrente ha tuttavia diritto a una parte del prodotto generato dalla caccia proporzionale alla superficie della sua proprietà e può inoltre richiedere di essere indennizzato ove l’esercizio venatorio produca dei danni sui suoi terreni.
Non è tutto: l’eccezione contro l’automatismo dell’adesione alla società regionale di caccia è stata dichiarata irricevibile dalla Corte poiché tali società, in Germania, per legge sono chiaramente di diritto pubblico, hanno statuti approvati dalla pubblica autorità e sono sufficientemente integrate nelle strutture dello Stato da far ritenere che il controllo su di esse sia molto più stringente di quanto non avvenga sulle società o associazioni di diritto privato: senza dimenticare che esse agiscono in nome dell’interesse pubblico, come prima ricordavamo.
Dunque, esse non possono essere assimilate alle “associazioni” come definite dall’articolo 11 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (ai cui sensi Herrmann ha presentato il ricorso su questo punto specifico). Infine, sulla discriminazione di cui Herrmann sarebbe stato oggetto in quanto piccolo proprietario, ossia l’inevitabilità dell’obbligo di consentire la caccia sulle sue terre (mentre i grandi proprietari possono disporre, a determinate condizioni, di deroghe che lascino un maggior margine alla loro libertà di scelta), la Corte ha condiviso l’argomentazione già a suo tempo sostenuta dallo Stato tedesco, secondo la quale le parcelle di limitata estensione devono essere “fuse” tra loro (nel senso di disporne l’adesione alla locale società di caccia) affinché l’esercizio venatorio possa esercitarsi su territori sufficientemente estesi da rendere veramente efficace la gestione delle popolazioni di fauna selvatica e il contenimento dei danni che esse possono causare. Ora, per quanto tale sentenza non sia ancora da considerarsi definitiva – poiché gli articoli 43 e 44 della Convenzione europea consentono alle parti di rinviarla avanti la Gran Camera della Corte, per ulteriore esame, entro tre mesi dalla sua pronuncia (quindi entro il 20 aprile prossimo) – non c’è dubbio alcuno che si tratti di un precedente di grande rilevanza, soprattutto per i principi affermati. Posto che, come è naturale e risaputo, le legislazioni venatorie dei Paesi europei sono a volte anche profondamente differenti tra loro, risultando legate all’assetto giuridico dello Stato rispettivo, l’esplicito riconoscimento alla caccia di un ruolo conforme all’interesse generale (ossia pubblico), la colloca automaticamente sotto una luce favorevole e ne evidenzia la positività, che dovrebbe valere ovunque. Questo approccio azzera già in avvio di ragionamento tutto il substrato di irrazionalità ed emotività di cui si alimenta l’avversità per la caccia, tipico ad esempio dell’animalismo, che sia spicciolo e demagogico (quello della domenica o della Ministra Brambilla, tanto per capirsi…), oppure fondato “filosoficamente” sui testi dei pensatori animalisti americani degli anni ’70 e ’80 e loro seguaci, poiché entrambi si limitano a combattere la caccia per partito preso, non offrendo alcuna soluzione alternativa ove venisse a mancare e con essa i suoi effetti ai fini del controllo delle popolazioni selvatiche, dei danni all’agricoltura e alla zootecnia, dell’espansione di certe specie a discapito di altre, ecc.
La vita a un animale non deve mai essere volontariamente tolta, qualunque sia la giustificazione addotta da chi lo fa. Potremmo dire che l’approccio della Corte è sanamente pragmatico, tenendo in conto delle reali necessità sociali ed economiche della vita quotidiana (e indirettamente degli stessi animalisti più o meno vegetariani, perché se i cinghiali e i cervi devastano le colture di cereali e ortaggi, quei poveracci di cosa potranno mai nutrirsi?) che si configurano nella e per la collettività. Il diritto alla proprietà privata resta inviolabile: nessuno, infatti, la sottrae al legittimo proprietario affinché vi si eserciti la caccia, semmai in nome di un interesse superiore ne viene sottratto temporaneamente l’utilizzo, peraltro in maniera limitata perché legata alle stagioni, orari, situazioni nei quali l’attività venatoria è permessa. Inoltre, una lezioncina a noi italici cacciatori potrebbe venirne anche dallo status giuridico delle società regionali e locali di caccia tedesche: queste entità, che gestiscono il prelievo venatorio sul territorio, come abbiamo visto ricavano grande beneficio dal fatto di essere chiaramente indicate come rientranti nella sfera del diritto pubblico. Non sarebbe forse il caso di pensare seriamente a definire lo status giuridico dei nostri ATC e CA? Sono ormai venti anni – ovvero dall’entrata in vigore della legge 157 – che se ne dibatte, con la prevalenza ora della tesi privatista, ora della tesi pubblicista, ora di una commistione di entrambe.
Dall’una o dall’altra scelta deriverebbero vantaggi e svantaggi, ma certamente rimanere nell’attuale limbo non giova a nessuno. Senza tralasciare la terza via, che potrebbe essere l’abolizione dei territori a caccia programmata per tornare alla gestione in capo alle Province, come avveniva ante legge 157 e come ci piacerebbe tanto fare nelle troppe situazioni in cui ATC e CA, lungi dal gestire, sono diventate repubblichette delle banane in mano a personaggi ambigui che si cullano in un effimero potere senza ovviamente curarsi di applicare ciò che la legge demanderebbe loro. Questo però è un altro discorso, che ci riserviamo di meglio approfondire in una prossima occasione. Intanto, chi volesse maggiormente informarsi sull’argomento odierno leggendosi la relativa documentazione (disponibile in inglese e francese), può rivolgersi all’incaricato per gli affari giuridici della FACE Johan Svalby alla mail: [email protected].
Massimo Marracci