Mi ha fatto piacere che Stefano Masini nella sua recente nota su Big Hunter abbia fatto riferimento a un giudizio, sicuramente originale, e in ogni caso pienamente condivisibile, del saggista tedesco Hans Magnus Enzensberger. Un pensiero, il suo, che ebbi modo di apprezzare per la prima volta ormai una quarantina d’anni fa, quando con poche pennellate, reduce da un suo viaggio-permanenza in Italia, ci racchiuse - come popolo – in alcuni concetti, tanto sintetici quanto sferzanti, che a distanza di così tanto tempo confermo precisi e azzeccati.
Scrisse insomma che sostanzialmente eravamo un popolo di privilegiati, nessuno escluso, perché dall’ultimo cittadino ai padroni del vapore si basava la nostra ricchezza sul fatto che comunque ognuno di noi poteva contare su un “santo in paradiso”. Ne aveva avuto la certezza parlando ed entrando nella sfera personale di molti moltissimi che aveva intervistato, i quali immancabilmente ripetevano che in caso di bisogno sapevano a quale porta andare a bussare per ottenere soddisfazione. Il vicino di casa che conosceva l’autista di un ministro, il portiere del palazzo che tutte le mattine faceva quattro chiacchiere col professore che era parente del direttore della grande azienda, il tassista che aveva un fratello al ministero, la vedova che aveva il figlio militare nelle grazie del maresciallo di fureria eccetera eccetera. Un popolo di fortunati, insomma, un popolo fatto di gente a tu per tu col potere, al quale dava – facendo anche umili favori – edal quale all’occorrenza poteva ottenere. E’ così, noi lo sappiamo bene: l’arte di arrangiarsi, di aiutarsi a vicenda, la contiguità non solo in senso trasversale ma anche per contaminazioni verticali, è quella che ci salva in molte occasioni.
Riprenderò perciò il concetto di Enzensberger, ricordato da Masini, per cercare di approfondirlo nella maniera più consona a noi cacciatori. Il vero lusso, dice il filosofo tedesco, non sta nei soldi. Di quelli ce ne sono anche troppi. E’ ricco chi dispone di beni la cui scarsità è causa di crucci, crucci infiniti. Il tempo, l’autonomia, lo spazio, la sicurezza. Ma soprattutto, è ricco chi può disporre di beni ancora più rari: la convivialità, l’ambiente, la bellezza.
Beni, di cui il nostro mondo di cacciatori dispone sicuramente più degli altri.
Proviamo per esempio a pensare alla convivialità. Il nostro modo di essere conviviali.
E’ ormai certo che l’homo sapiens, cioè noi, duecentomila anni fa nacque cacciatore. La carne di selvaggina, cruda o cotta che fosse, oltre che elemento di sostentamento e di progresso del clan, divenne rito, cultura, identità. E’ facile immaginare che i nostri progenitori, finita la caccia, si raccogliessero in circolo e rendessero omaggio alle divinità consumando “insieme” la carne e rievocando con parole e gesti i momenti salienti delle loro recente esperienza venatoria. Spesso non priva di momenti esaltanti. Non dimentichiamo che avevano a che fare anche con selvatici pericolosi e di grande mole, come l’orso, il bisonte, il mammuth. Le testimonianze culturali conservatesi fino all’epoca moderna ce ne danno ampia riprova. Chi non ricorda le suggestive scene conviviali del film Balla coi lupi, con lo yankee costretto a ingozzarsi di carne di bisonte e a mimare le sue gesta all’infinito?
Pressoi Celti, i “festini” a base di carne di selvaggina servivano a rafforzare la coesione interna del gruppo sociale. Carlo Magno, a fine cacciata, disponeva immediatamente per il banchetto. Nel bosco. I commensali erano disposti in ordine di rango e di anzianità. La convivialità ritualizzata come strumento di conferma della solidarietà del gruppo. Il “signore” era carnivoro. E non per necessità alimentare. (Già nel paleolitico, del resto, con l’avvento diffuso dell’agricoltura, la caccia aveva acquisito valore simbolico, di passione). Il momento successivo, quello del convivio, era occasione necessaria per rinsaldare i valori della comunità. Nelle corti borgognone, in epoca rinascimentale, il banchetto rituale a base di selvaggina veniva interpretato sotto il profilo socializzante, come del resto l’organizzazione della caccia stessa, “apparecchiata” (non a caso il termine è usato contestualmente) con la partecipazione di cacciatori di eterogenea estrazione sociale. Già allora il cinghiale era caccia che portava al rispetto reciproco, in funzione delle qualità umane e venatorie dei singoli partecipanti.
Oggi, nel solco delle consuetidini, il momento conviviale – anche fra una battuta e l’altra -, registra la comunanza fra i vari attori nella sceneggiatura della braccata. E soprattutto la cena di fine stagione, allargata a famiglie amici e autorità, rappresenta la massima sintesi dei valori sociali che la caccia da sempre esprime.
Oggi, fortunatamente, grazie a queste sollecitazioni ancestrali, i nostri cacciatori ripropongono anche spunti di solidarietà, collegati al consumo della carne di selvaggina. Mi viene in mente - uno fra tanti - Giovanni Persona, vicepresidente dei migratoristi italiani, che tutti gli anni raccoglie selvaggina fra i cacciatori del suo paese e in accordo con sindaco e parroco organizza una grande cena, a cui insieme ai cacciatori partecipano come ospiti d’onore gli anziani i poveri e i bisognosi della comunità. E così fanno tanti e tanti dirigenti delle nostre organizzazioni venatorie. Senza contare gli esempi di solidarietà conviviale (tipo:Aggiungi un posto a tavola), che ognuno di noi, senza tanto chiasso, ogni giorno celebra nel suo piccolo. Pensate se di questi infiniti piccoli atti amicali, coordinati, organizzati, contestualizzati, se ne facesse occasione per dimostrare come la caccia è una delle ultime vere sincere opportunità di dimostrare che siamo ancora uomini. Ovvero esseri viventi, depositari - sempre più in solitudine – della residua umanità della specie.
Che ne dite? Non sarebbe bello?
PS
In questi giorni di letizia cristiana, sono stato a far visita al mio amico B., relegato in una cameretta d’ospedale, a tu per tu con la sofferenza. Ho cercato di alleviare minimamente le sue pene, ricordando altri momenti, di piacevoli ozii venatori e soprattutto di convivialità, nella sua casa fraternamente accogliente, sempre aperta agli amici, intorno a una tavola perennemente imbandita, spesso arricchita di veri e propri trionfi di beccacce.
Alla sera, con M., sono stato a trovare un altro amico, Giovanni Franceschi, raffinato esteta della caccia, della pesca e della buona tavola, che –anche lui – trova piacere nel circondarsi di amici intorno a una tavola che sprigiona gioie culinarie uniche ed esclusive. Nella sua semplice casetta in gronda di padule, con le spalle rivolte alla dolce fiamma del focolare, abbiamo conversato amabilmente delle nostre cacce, di antichi voli di bozzoletti, dei tordi della Maremma, della gente che la pensa come noi. Il pasticcio di alzavola era sublime (G.I.).