Importata in Europa da una decina d'anni dal Nord America e già sperimentata con successo per le oche in Danimarca (da cui ha preso il via il progetto internazionale promosso dall'Aewa, African-Eurasian Migratory Waterbirds), la gestione adattativa del prelievo può realmente costituire la chiave di volta di un nuovo approccio scientifico della caccia agli uccelli migratori? Fra tanti dubbi, vediamo di che si tratta.
In termini generali, il processo di gestione adattativa del prelievo è un modo per garantire la caccia sostenibile. In pratica si tratta di stabilire i livelli del prelievo venatorio reali, sulla base di un sistema coordinato di monitoraggio, di analisi dei dati, in un processo decisionale all’interno e tra i Paesi in cui le specie sono presenti. Sulla carta dunque qualcosa di granitico e inappuntabile, che quindi potrebbe rendere inutili – qui da noi - gli sforzi (maliziosi?) dell'Ispra per ridurre significativamente le date di prelievo venatorio. Ispra infatti, cosa alquanto bizzarra per un Istituto scientifico, per molte specie oggetto di caccia non monitora e non censisce, malgrado il fatto che i cacciatori potrebbero (come del resto cercano di fare) fornire ampia messe documentale. Scientifica, ovviamente. E, proprio in forza di questi dati mancanti, chiede continue e a detta di molti pretestuose riduzioni dei tempi e dei carnieri. Un circolo vizioso e viziato che svilisce la figura del cacciatore, costantemente buttato in pasto ad un'opinione pubblica a cui si presentano rischi di depauperamento delle popolazioni migratorie che spesso non sono reali e che non hanno nulla a che fare con la caccia.
Sulla base di questi censimenti, e dei raffronti con gli stati confinanti, dunque sarebbe possibile prevedere un livello di prelievo accettabile dal punto di vista ecologico, sociale ed economico e adeguare le normative nazionali e regionali in maniera dinamica. Il che ovviamente presuppone anche una stretta collaborazione fra Stati, per dar vita ad un coordinamento internazionale in grado di rispondere alla fluttuazioni delle popolazioni, specie quando costituiscono un danno per l'agricoltura, come lo è stato in particolare per il caso delle oche. Del resto, è quello che ha raccomadato (forse inascoltata) la direzione generale del Minambiente in occasione degli aggiornamenti dei KC.
Il dibattito su questa opzione è aperto ormai da anni in tutta Europa. In Francia per esempio è l'Onfcs, Office National de la Chasse et de la Faune Sauvage, con una propria pubblicazione, a far presente che si tratta di un mezzo di controllo moderno, efficace ed equo dell'attività venatoria, in particolare per gli uccelli migratori. Un metodo scientifico capace di adattarsi all'evoluzione dei problemi (pensiamo per esempio allo storno, oggi non cacciabile in Italia, e a quanti danni provoca). Di fronte all'aumento vertiginoso della popolazione si potrebbe rispondere con una strategia coordinata di gestione, sia a breve che a lungo termine. Il metodo infatti prevede il raffronto continuo tra i risultati attesi e quelli ottenuti. Le eventuali divergenze permettono di valutare la coerenza delle varie ipotesi ed affinare la comprensione dei processi che regolano le dinamiche del sistema. Secondo l'Ofncs è possibile applicare la gestione adattativa a una gamma molto ampia di situazioni, con il vantaggio di ottenere una migliore comprensione dei fenomeni legati alla consistenze delle specie, per stabilire le azioni di gestione più appropriate.
Un quadro di gestione adattativo ampiamente documentato, come dicevamo, è quello della caccia agli uccelli acquatici in Nord America. L'esperienza americana, l'unica testata già dagli anni '90, ha permesso, grazie ad una continua collaborazione tra gli scienziati, le associazioni dei cacciatori e l'ente governativo (United States Geological Survey e Fish & Wildlife Service) di affinare gradualmente la comprensione dei fattori che regolano le popolazioni (come la bassa densità dipendente dalla fertilità o l'effetto adattativo alla caccia). Tenendo conto del prelievo effettivo e della consistenza delle popolazioni, sono via via state definite le quote per la stagione successiva.
Il successo della gestione adattativa degli anatidi nel Nord America è infatti oggi ampiamente riconosciuto sia da un punto di vista conservativo, che da quello dei cacciatori, perché consente di mantenere l'opportunità di cacciare le cosiddette specie "sensibili" (ad esempio in declino o con uno stato di conservazione sfavorevole), modulando il raccolto, infine, sotto il profilo scientifico, poiché migliora costantemente la comprensione dei processi ecologici che regolano il sistema. Il che, ricordiamolo, è possibile solo se si ha una stima regolare e realistica della dimensione fattiva di una data popolazione (e qui rientrerebbe in gioco l'Ispra o chi per esso). Ma il nostro areale, si potrebbe obbiettare, è più vasto e irregolare di quelle delle Americhe, che hanno di qua e di là due oceani che incanalano i flussi migratori. Mentre l'Eurasia è più larga che lunga. Verissimo. Ma intanto si potrebbe cominciare a rifletterci su. Tenendo conto che - per esempio nel nostro paese - abbiamo già una discreta cognizione delle linee di spostamento delle popolazioni migranti e dei contingenti che ogni stagione si ripresentano. E soprattutto delle ragioni che ne determinano la presenza. Sempre grazie in gran parte ai cacciatori. Che, forse, individuando e sostenendo una via italiana al concetto in ipotesi, potrebbero essere ancora di più e meglio padroni del loro destino. Oggi in mano a un manipolo di teorici e salottieri.
Il dibattito è aperto.
Cinzia Funcis