Le bocce del voto europeo sono ormai ferme e, come sempre, è giunto il momento di metter giù qualche riflessione. Innanzitutto, evidenziamo compiacimento per quanto sembrino diventate importanti queste elezioni per tanti Italiani e pure, diciamolo, per tanti politici italiani. Magari in questo momento storico la fortissima attenzione è dovuta solo alla ricerca di un rafforzamento dei consensi più che alla volontà di far qualcosa all'Europarlamento, oppure all'unico desiderio di affossare l'odiato Euro, chissà...
Tuttavia, ricordiamo bene come, fino a non troppi anni or sono, la convinzione diffusa fosse quella che, in Europa, i partiti cercassero di “riciclare i trombati” del voto nazionale o regionale. E bisogna dire che ce la mettevano tutta per farlo sembrar vero, testimoniando così l'assenza di comprensione politica di dove fossero i nodi da sciogliere per cercare di operare al meglio in casa nostra: perchè questo è il cuore della questione, come decine, forse centinaia di volte abbiamo scritto e dichiarato pubblicamente. Una volta proprio il sottoscritto coniò la semplice frase “non si muove foglia che Bruxelles non voglia” e oggi tale definizione mi sembra (purtroppo) la più azzeccata. Dove il “purtroppo” deriva dall'amara constatazione dei danni causati dall'abdicazione della politica dagli emicicli e dai corridoi di Bruxelles e di Strasburgo, nutrendo e accrescendo a dismisura il mostro della burocrazia.
Un mostro talmente dissennato che ormai non esita più a scadere nel ridicolo pur di imporsi: docet la recentissima vicenda dell'ex-Commissario all'Ambiente Potocnik, che a sua firma inviava all'Italia comunicazioni ufficiali sui richiami vivi dai contenuti a dir poco arbitrari, confezionate da funzionari privi di scrupoli pur di ottenere un assurdo appiattimento sui loro desiderata (naturalmente anticaccia) Introduco così il secondo tema: la “globalizzazione europeistica”. Essa viene ormai palesemente perseguita dagli uffici – della Commissione in particolare, ma non solo – al fine di ridurre ai minimi termini o persino di azzerare le differenziazioni tra i vari Stati membri, che siano di cultura, tradizioni, costumi, usanze, attività, ecc.
Il nostro continente per costoro sta diventando un campo di esercitazioni per grossi calibri che, a furia di correggere la mira, fatalmente centreranno il bersaglio. Una situazione che desta grande preoccupazione, anche perché se i politici periodicamente sono sottoposti al giudizio popolare e possono essere mandati a casa, i dipendenti al contrario non possono essere facilmente rimossi da un determinato incarico o ruolo: sacrosanto dal punto di vista della tutela dei lavoratori, ma pericolosissimo allorché ci si trovi innanzi a soggetti ammalati di parzialità.
Nè dall'altra parte aiutano a sgretolare questo scenario le miserande dimostrazioni di fanatismo religioso animalista sfoggiate nel precedente mandato da taluni eurodeputati italiani, che hanno costantemente praticato un gioco al discredito del nostro Paese – che pur rappresentavano – pur di soddisfare la loro cieca ideologia: peraltro e fortunatamente ricavandone frequenti, sonore stangate. Non basta perciò augurarsi vivamente un ritorno al primato della politica, che sollecitiamo a gran voce, bensì occorre che poi essa si eserciti con equilibrio o che perlomeno all'equilibrio essa punti, con tutte le inevitabili debolezze e passioni umane del caso.
La conservazione e l'utilizzo sostenibile della fauna selvatica attraverso la caccia ne hanno grande necessità: c'è l'annosa questione delle deroghe, chissà perché continuamente rimproverata all'Italia quando se ne fa ampia applicazione anche in molti altri Paesi membri; c'è quella delle catture dei richiami vivi (che rientrerebbe nella precedente fattispecie), che certi solerti funzionari europei vorrebbero azzerare pur non essendo affatto vietata a livello comunitario, giungendo persino a chiedere modifiche legilsative in tal senso ai singoli Stati; ci sono tutte le filiere della collaborazione dei cacciatori ai monitoraggi sanitari della fauna selvatica, alla commercializzazione della carne di selvaggina, al contenimento delle specie dannose alle produzioni zoo-agro-forestali, temi su cui nessun altro cittadino può contribuire con la medesima efficacia; c'è il complesso argomento del benessere animale, che richiede un'attenzione specifica viste le derive che rischia sia nel senso dei sostenitori che dei detrattori; c'è ancora la mai conclusa querelle sui rapporti tra i siti di Natura 2000 e l'attività venatoria, ben definita nella maggioranza dei Paesi ma che periodicamente viene rispolverata e ci sono poi tante altre questioni di rilievo nelle quali la caccia rientra di dritto o di rovescio. Insomma, la carne al fuoco abbonda.
C'è soltanto da augurarsi che gli chef che stanno prendendo posto sugli scranni del P.E. siano all'altezza del compito anche sulle materie di nostro interesse, affrontando problemi vecchi e nuovi con dedizione, volontà e consapevolezza di dover rapidamente riagguantare la barra del timone europeo prima che sia troppo tardi.
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