Mesi fa si è fatto un gran parlare di certi fondi pubblici che si ipotizza siano finiti - ma qualcuno sostiene che ancora finirebbero e continuerebbero anche in futuro a finire - nelle voragini dei bilanci dei parchi e delle aree protette. Addirittura, è stata presentata più di una interrogazione parlamentare per sapere se era vero e a quanto eventualmente sarebbero ammontati.
In periodi di vacche magre, con gli italiani che devono sempre di più stringere la cinghia, c'è stato anche un momento che si era addirittura sperato che non ci fossero praticamente più soldi per quegli stipendifici che sono i consigli di amministrazione dei parchi. Mentre invece qualcuno sostiene, oggi, che il governo lacrime e sangue di Monti li avrebbe ripraticamente riattivati. Sono notizie appena sussurrate, che non trovano nè risposta nè gran riscontro, visto che nel nostro paese la regola della trasparenza è tanto propagandata quanto disattesa. Provate a cercare - che so - sul sito della Corte dei Conti qualche voce di spesa di qualsivoglia ente pubblico. Se vi va bene, la trovate frammentata in centinaia di rivoli e nascosta fra le volute fumose di un pedante linguaggio da azzeccagarbugli, con termini a dir poco risalente ai borboni.
Sinceramente, non ne possiamo proprio più di questi modi di amministrare la cosa pubblica, e i soldi pubblici, che ci fanno sentire sempre meno cittadini e sempre di più sudditi di uno stato accartocciato su se stesso, tanto succube degli apparati quanto insensibile ai bisogni della gente comune.
Non parliamo poi delle cose che ci riguardano. La caccia e il patrimonio naturale. Proposti all'opinione pubblica come due facce della medaglia, l'una ormai consunta, indistinguibile, diafana, dietro la quale si consumano i peggiori crimini ambientali (vedi Ilva, discariche tossiche, ecoballe), l'altra ben scolpita e riproposta al pubblico ludibrio con una frequenza da "tutto il calcio minuto per minuto", che fa apparire la nostra attività come l'unica causa di tutti i mali della società.
Prendiamo ad esempio la questione delle zone umide. Quelle residue. Nell'ultimo secolo il progresso ce ne ha mangiate almeno il sessanta per cento. E nonostante tutto, ne abbiamo ancora quasi ottocentomila ettari (fonte WWF). Sono un patrimonio inestimabile, dicono. E anche noi, che le frequentiamo ancora - quasi unici in Italia, ormai - lo sappiamo bene. Ecco, se andate a a chiedere, sembrerebbe che se questi ambienti ospitano ogni anno due miliardi (due miliardi, si) di uccelli migratori, il merito è degli ambientalisti che ne curano si e no il 6% (in buona parte inseriti nel sistema della Convenzione di Ramsar). Ovviamente, attingendo alla grande dai fondi pubblici. Spesso anche dai fondi specifici che al centro e alla periferia provengono dalla caccia e che per legge dovrebbero alla caccia tornare.
Una foglia di fico, insomma, che da sola non potrebbe risolvere niente, ma che basta per far credere alle masse distratte quanto bravi siano alcuni, e quanto sciagurati siano invece i molti: noi cacciatori. Che invece - diciamolo per l'ennesima volta, ma non diciamolo solo fra noi, facciamolo sapere a tutti, cominciando dai nostri amici, conoscenti, vicini di casa - con soldi nostri, e pagandoci anche le tasse, continuiamo a sostenere gli oneri per far sopravvivere questi ambienti, condannati altrimenti a scomparire, visto che ormai anche il pesce che troviamo sui banconi degli ipermercati proviene da ben altre destinazioni.
Non è che con questo si voglia demonizzare convenzioni, trattati internazionali, direttive comunitarie. No. La protezione dell'ambiente e del patrimonio faunistico è cosa importantissima. Tuttavia sarebbe l'ora di far capire che non è con i soldi pubblici che si può sostenere un sistema fine a sè stesso. E non è certo col turismo di massa che si fa del bene alla fauna selvatica, nè si dà ossigeno a bilanci da sempre asfittici. Sarebbe un controsenso. Mentre chi ha occhi per vedere e orecchi per ascoltare, impara facilmente che per quanto riguarda le aree palustri un numero esiguo di cacciatori (fra tutti, siamo poco più dell'uno per cento della popolazione italiana, i cacciatori di selvaggina acquatica sono molti meno) si fa carico degli oneri, pesantissimi, della loro gestione. I greci, che la sapevano lunga, avevano coniato un unico termine (oikos) come radice dei concetti di ecologia ed economia. Perchè la loro saggezza - nel tempo - li aveva educati a collegare il "bello" all'"utile". Cosa che ormai, i nostri modelli planetari (profitto, profitto, e solo profitto, riconducibile al motto: prendi i soldi e scappa) rischiano di farci dimenticare.
Concludendo. C'è bisogno in assoluto di collegare le nostre zone umide, per salvarle, alla convenzione di Ramsar? A occhio e croce a me sembrerebbe ininfluente. Diventerebbe tuttavia pernicioso se con Ramsar si volesse passare il concetto di tutela totale, che da noi implica il divieto di caccia. Senza i cacciatori che si fanno carico economicamente di queste aree ormai ineconomiche, si creerebbero solamente dei deserti palustri a cinque stelle, per "ecologisti" da strapazzo.
Alberto Belloni
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