E' dai tempi mitici di Ercole che fa discutere. Già allora, avevano da poco inventato l'agricoltura, qualcuno se ne lamentava perchè faceva danni. Costretto dall'Oracolo di Delfi a mettersi al servizio di Euristeo, re di Argo Micene e Tirinto, che gli impose come tutti sappiamo dodici fatiche, Ercole, per la quarta fatica dovette affrontare un pericoloso cinghiale che abitava il monte Erimanto, ma spesso scendeva a valle e devastava i campi e i villaggi. Un po' come ora, secondo quanto narrano le nostre cronache, convintamente amplificate dalle organizzazioni agricole. L'eroe eponimo lo insegui fino nei più angusti anfratti del monte e quando - il cinghiale finalmente spossato - lo raggiunse, con un colpo di clava lo tramortì, lo legò saldamente e se lo caricò sulle spalle per condurlo vivo a corte, a Micene. Aveva compiuto l'impresa, ma il re, garante dei suoi sudditi contadini, non apprezzò il gesto, anzi per paura si nascose in un orcio di terracotta e ordinò che la bestia venisse portata altrove. Un po' come vorrebbero fare certi ambientalisti della domenica, che pensano di risolvere i problemi degli squilibri faunistici appioppando gli oneri a qualcun altro.
Diversa, a mio parere, la posizione degli agricoltori nostrani. Il cinghiale è vero che fa danni. Almeno in alcune aree del paese dove si coltivano prodotti di qualità. Ma a ben guardare, se vai nei loro agriturismi trovi sempre qualche piatto che ce lo ricorda, il cinghiale, come ci ricorda il capriolo, a volte il cervo, a volte anche il daino e il muflone. Mentre il camoscio è vanto della salumeria e dell'accoglienza delle nostre valli alpine. Insomma, secondo me, fatta salva la buona fede di tutti, mi sembra un po' come la favola della volpe e l'uva. Si batte sul discredito, ma si vorrebbe volentieri essere anche i depositari (esclusivi?) del consumo (economico) di questo suino. Perchè, lo sanno tutti, ormai, il cinghiale altri non è che... un porco (sus scrofa) non ancora addomesticato, dalle ottime carni. Tant'è vero, come insegna anche quell'interessante videoclip ad uso della gente comune, bambini compresi, prodotto anche in versione italiana dal CIC, il Consiglio Internazionale della Caccia, non sono rari gli accoppiamenti fra verri selvatici e scrofe domestiche.
Non troverete ovviamente nessun dirigente di associazione agricola che condivida questa ipotesi dell'esclusività dell'utilizzo, tranne quei fortunati imprenditori agricoli che nelle loro aziende faunistiche organizzano frequenti battute a cui partecipano fior di ospiti. In braccata!
Eh già! In braccata. Croce e delizia di chi anche in questi giorni ne discute, quando per magnificarla e difenderla, quando per esecrarla (si dice anche che la carne di un cinghiale braccato sviluppa tossine dannose per la salute), quando - come l'ultima sortita di Legambiente - preoccupandosi per la salute dei nostri vecchietti cacciatori, messi sotto schiaffo ahinoi anche dal Covid 19.
Ma se vai a scavare, sotto sotto ci trovi anche i cinquestelle che, chissà da chi istigati, novelle Procacci (pasionaria verde di epoca referendaria), rilanciano a più riprese l'abrogazione dell'842, che malgrado i decennali attacchi resiste ancora nel mito di chi agogna il ritorno a una caccia libera. Intendiamoci: singolarmente, sono posizioni legittime. Tutte. Quelle degli agricoltori, quelle degli ambientalisti (non certo quelle degli animalisti, tanto velleitari quanto ottusi), quelle dei cacciatori, ovviamente. Che peraltro, ultimamente, si stanno sempre più distinguendo fra filobraccaioli e filo selettori. E' data anche una sottocategoria: quella dei braccaioli-selettori. Tutti tenuti d'occhio con una qualche diffidenza dalle altre categorie di cacciatori, migratoristi, beccacciai, peraltro sempre più tartassati, che si vedono penalizzati nelle loro cacce dalla prorompente esuberanza dei colleghi, travolti dall'abbondanza, la crescita senza sosta di queste popolazioni selvatiche che trasudano saporiti prosciutti, festoni di salsicce, infinite porzioni di salmì.
E allora!? Che vogliamo fare? La vogliamo trovare una sintesi? Gli agricoltori giurano che malgrado i tanti provvedimenti sul territorio, le leggi speciali, le leggi obiettivo, non ce la fanno più a sopportare le scorrerie notturne - e anche diurne, ormai: la pandemia ce li ha portati fino in città, insieme a volpi, lupi, pappagalli - di questi ruvidi setoloni. Gli amministratori locali hanno il terrore dei danni che dovranno pagare e dei rischi anche penali che devono correre tutte le volte che i cinghiali (ma non solo) provacano incidenti stradali. Gli ATC protestano perchè il rimborso dei danni prosciuga le loro casse sempre più vuote, quando giustamente - sostiene qualcuno - se la fauna selvatica è proprietà indisponibile dello Stato, dovrebbe essere lo Stato a saldare il conto.
Insomma, qui volere o volare occorre un patto nuovo. Coraggioso. Non è più possibile tenere distinti gli interessi, che - lo vediamo tutti i giorni soprattutto per quanto riguarda la gestione del territorio - generano conflitti e non portano a soluzioni. E' il momento di ripensare il rapporto fra ambiente, agricoltura e caccia. Parchi, attività agricole, gestione faunistica, caccia, devono trovare una nuova sintonia. Devono essere armonizzati fra loro. Con nuove norme, che affrontino le tante competenze in realtà tutte chiaramente collegate fra loro.
Ci vogliamo provare? Vogliamo una volta per tutte, va detto soprattutto ai dirigenti venatori, smetterla con la caccia al tesserato e darsi da fare, invece, per rilanciare una politica della gestione ambientale che intenda questa nostra meravigliosa attività come un moderno strumento al servizio della società?
Io credo che, se ci riuscissimo, saremo ancora più fieri e orgogliosi di chiamarci cacciatori.
Andrea Di Bernardo