Uniti si vince. Non è detto. Divisi si perde. Questo si, che è stracerto. E’ una regola elementare di vita. Ce lo insegnavano a scuola, fra i primi rudimenti di etica. Educazione civica, si chiamava un tempo. C’erano i proverbi (l’unione fa la forza), i sermoni in parrocchia e all’altare (cercate di stare insieme, vogliatevi bene, qualsiasi comunità a partire dalla famiglia è fondata sull’armonia, dobbiamo andare d’accordo). Solo se lavoriamo tutti insieme, per il bene comune – questo era in fondo il messaggio – ognuno ne potrà trarre beneficio. Altrimenti andiamo tutti in malora.
Semplice, no?
Massime che hanno funzionato per più di una ventina di secoli (spesso, purtroppo, solo all’indomani di, guerre, lutti e desolazioni infinite). Principi saggi, comunque, che in occidente, da almeno mezzo secolo ci hanno fatto capire che le guerre è meglio non combatterle. Neanche quelle fredde, se possibile. Lasciano comunque macerie e distruzione. Meglio andare d’accordo, dunque. Meglio stare insieme.
Ma perché, allora, da qualche tempo a questa parte, la nostra società è pervasa di posizioni integraliste? Perché non passa momento in cui le ragioni del contrasto prevalgono su quelle della ragionevolezza? Perché si galleggia sempre di più nella conflittualità? Perché l’altro, quello che non la pensa come noi, viene sempre più spesso considerato nemico da sconfiggere, offendere, umiliare, piuttosto che un avversario col quale confrontarsi in una gara a chi ottiene un risultato migliore?
Perché?
Mah!
Il mondo, in questi ultimi decenni è cambiato. Profondamente cambiato. Certi valori, come la solidarietà, l’amicizia, la comprensione delle ragioni altrui, sono stati sommersi da una canea vociante, a cui i nuovi mezzi di comunicazione, televisione in testa, hanno fatto da enorme cassa di risonanza. Molti di noi, non solo i più giovani, non pronti a tali repentini cambiamenti, hanno pensato che questa era la regola. Così si deve fare. E in questo modo, molti di noi, hanno cominciato a regolarsi. Non immaginando che dietro quella scatola luminosa, ci sono dei manovratori e che chi non dispone dei mezzi adeguati (non solo economici, anche se il megaportafoglio conta in maniera preponderante), in questa “competizione” è destinato a soccombere.
Ecco, ma un pistolotto così, potrebbe dire giustamente qualcuno, a noi che ci potrebbe insegnare? Che c’entra la caccia, con la guerra, la conflittualità fra le persone, le categorie sociali, i mezzi di comunicazione di massa, la televisione, i grandi capitali? Noi siamo gente semplice, siamo andati a caccia da quando esiste la nostra memoria di specie. Siamo stati cacciatori da sempre. Vogliamo continuare ad andare a caccia, pacificamente. Non chiediamo altro se non quello che è sempre stato un nostro diritto. E se questa nostra è una pratica che ci ha sempre contraddistinto nella storia, vuol dire che siamo anche stati bravi ad amministrare il nostro patrimonio. Perché se, come qualcuno dice, fossimo i distruttori di tutte le specie selvatiche, allora avremmo smesso da tempo di andare a caccia.
E invece, laddove ci sono i cacciatori, dove prospera quest’attività, le cose vanno bene anche per la fauna che ne popola i territori. Inoltre, nessuno lo può contestare, siamo stati capaci anche di darci delle leggi, nel tempo, che sono risultate la salvezza di questo patrimonio. Un patrimonio che sentiamo anche nostro. Soprattutto nostro. E infine, chi può pensare, che se qualche specie selvatica è a rischio di estinzione, la responsabilità è nostra? Come potrebbe essere, quando i migliori territori del nostro paese, per almeno due quinti del totale, sono per noi dei veri e propri santuari faunistici? Ovvero, in altre parole, quando molto più di un terzo delle nostre campagne è un paradiso per la selvaggina, visto che la caccia, là, è off-limits? Verboten! Impossibile, pena anche l’arresto?
Eppure – da un po’ di tempo a questa parte – siamo oggetto di un’incredibile campagna di diffamazione, di denigrazione, senza né confini ideologici, nè steccati politici, né discrimine di cultura o di classe? Forse, qualcuno potrebbe obiettare, è perché gli altri urlano e noi non urliamo abbastanza. Forse, è perché noi cerchiamo di ristabilire la verità, ma il messaggio non passa. Forse, è perché, anche quando urliamo, le parole d’ordine che escono dalle nostre bocche non sono quelle giuste.
Chissà. Resta il fatto che in molti anche dei nostri cominciano a pensare che meno urliamo e meglio sarebbe. Le conseguenze, infatti - dicono questi - portano a un inasprimento dei rapporti con l’opinione pubblica e – per contro – non producono risultati. Anzi, un risultato lo stanno ottenendo: rotture, incomprensioni, distanze sempre più marcate fra le diverse componenti del nostro mondo. Ci sarà un rimedio? Sarà possibile un giorno intavolare un confronto civile? Recuperare un minimo di armonia almeno fra di noi?
La questione è cruciale. Nessuno, da solo, troverà la soluzione. Sarà bene pertanto, da ora in avanti, ma alla svelta, soffermarsi un po’ di più a riflettere e cercare la strada migliore e tutti insieme. La troveremo? Chissà. Non esistono percorsi predefiniti. L’impresa appare ardua. Ma almeno ci dobbiamo provare. Ne va del nostro futuro.
Salvatore Rubini