Il mondo della caccia non riesce a farsi sentire attraverso i canali convenzionali dei media e della politica poiché nel suo complesso, pur con tante nobili eccezioni, è considerato impresentabile e controproducente sul piano del consenso della pubblica opinione. A questa conclusione, con percorsi diversi, sono giunte entrambe le coalizioni che hanno governato il paese negli ultimi anni e chi meglio conosce i dettagli della politica sa che vi sono stati precisi veti da parte dei leader al fine di non rischiare apparentamenti troppo evidenti coi cacciatori. Giusto o no, siamo un parente scomodo per la politica. Non a caso uno dei pochi a non temere di associare la propria immagine alla caccia lo fa perché è stato eletto grazie ai voti dei cacciatori di una specifica area in cui il malcontento per la legge in atto aveva e ha toni più accesi.
La 157 è una legge di compromesso, nata in un momento politico e in un panorama venatorio del tutto diverso da quello attuale. Alcune forme di caccia e alcune specie cacciabili non esistevano quasi o avevano numeri di scarso rilievo, mentre oggi sono protagoniste della stagione venatoria, altre pratiche erano diffuse e oggi sono in declino verticale. Il mutamento avvenuto (e in atto) richiede di riconsiderare alcuni aspetti, ma, a mio avviso, resta sostanzialmente accettabile l'impianto della legge, ovvero il legame del cacciatore al territorio. Ho scritto "legame" non vincolo, nè giuramento di fede eterna, come purtroppo in certi casi viene inteso il legame. La scelta della forma esclusiva di caccia, ad esempio, è anacronistica e stupida: oggi nelle Alpi e anche in molte zone di Appennino la scelta si effettua di fatto nelle strutture territoriali, dove decidi se cacciare ungulati o piccola selvaggina. Oggi puoi iscriverti, non senza difficoltà, a due entità territoriali e, al massimo avere estensione a poche giornate alla migratoria in altre zone: che bisogno c'è di scegliere la forma esclusiva di caccia a priori se la limitazione all'erratismo venatorio ce la danno già norme regionali e calendario? Ricordo, a margine, che non è della 157/92 la responsabilità della situazione paradossale delle cacce in deroga a migratori non certo a rischio di estinzione, ma dell'infingardaggine e della scarsa professionalità di alcuni nostri rappresentanti politici europei (sempre preoccupati di tornare a casa per cena!) all'epoca in cui venivano tracciate le linee guida sulle specie cacciabili a Bruxelles con interminabili sedute serali. Politici di indubbia serietà e impegno come l'on. Ebner possono descrivere bene dove e quanto si è sbagliato all'epoca.
Oltre che di modifiche la 157/92 necessiterebbe di integrazioni, per quanto oggi costituisce problema e all'epoca dell'approvazione della legge non esisteva. In gran parte del paese è in atto uno scontro (che tutti amiamo tenere sotto silenzio) tra la dilagante caccia al cinghiale e le altre forme di caccia. E' uno scontro silenzioso, ma capillare, dove porzioni sempre più vaste di territorio vengono sottratte ad ogni altra forma di caccia semplicemente usandole per la battuta: nessuno viene cacciato in malo modo, ma beccacciai, migratoristi e cacciatori col cane da ferma si trovano sempre più spesso relegati in aree impervie o di scarso interesse per evitare di trovarsi in un crossfire di carabine e palle asciutte. Qualcuno obbietterà che in Toscana, patria della braccata al cinghiale, vi è sempre stata armonia tra le varie forme di caccia, ma è anche vero che dove vi è tradizione vi è cultura del rispetto e gestione più oculata del territorio, cosa che purtroppo non vale per le tante regioni di recente colonizzazione del cinghiale. La legge, o una sua integrazione, dovrà prima o poi affrontare questo aspetto cruciale, limitando l'uso del territorio e dando modalità e vincoli a quelli che oggi troppo spesso sono padroni in modo assoluto delle aree cacciabili montane e collinari. Anche sulla caccia di selezione un'integrazione esplicita sarebbe doverosa, senza ricorrere all'artificio di usare la legge finanziaria per legalizzarne alcuni aspetti. Da ultimo anche il commercio delle carni di fauna selvatica, oggi vietato, andrebbe rivisto e regolamentato: non si può pensare di interdirlo integralmente, illudendosi in tal modo di impedire il bracconaggio sui piccoli uccelli, quando si hanno piani di abbattimenti (legali e controllati) che ammontano a decine di migliaia di capi per le specie cinghiale, capriolo e cervo !
Poi abbiamo regioni "cenerentole", come la Sardegna e il Piemonte, diverse morfologicamente e culturalmente, ma caratterizzate da incomprensibile rigore legislativo in campo venatorio: i sardi sono da anni trattati alla stregua di ladri di galline, costretti a cacciare addirittura mezza giornata, malgrado un calendario già molto penalizzante, mentre in Piemonte molte delle specie cacciabili nelle regioni limitrofe sono vietate.
Infine, abbiamo il coraggio di ammetterlo, c'è una porzione d'Italia dove lo stato non esiste e la caccia è qualcosa dai confini vaghi e imprecisati, dove non si sa cosa accada se non, talvolta, dalle cronache locali che parlano di incidente di caccia (magari in giugno!) o di rapaci protetti abbattuti per errore. Noi, purtroppo, ci portiamo sulle spalle anche tutto questo, che pur disapproviamo, ma che per i nostri nemici viene ascritto comunque alla realtà venatoria.
La sola via d'uscita, per essere accettati dalla società civile è la credibilità, che ci permetta di essere rispettati anche da chi non ci approva. E questa si ottiene elevando il livello culturale, mostrando conoscenza della fauna, attaccamento al territorio, interesse a gestirlo come un capitale e non come un luogo dove rapinare tutto il possibile. In tanti anni di appassionato impegno in difesa della caccia devo ammettere di essermi scontrato più spesso coi cacciatori che con gli anticaccia. E non certo per codardia o mancanza di spirito polemico!
Alex Guzzi